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MIRACOLO A LE HAVRE regia di Aki Kaurismaki

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kafka62     7 / 10  18/04/2018 11:04:48Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
In questi tempi di crisi economica, di disagio sociale, di intolleranza diffusa, c'è più che mai bisogno di voci come quella di Aki Kaurismaki. I film del regista finlandese sono in fondo da decenni delle variazioni su un unico tema: simili sono gli ambienti (stanze squallide e spoglie, con rare suppellettili a fare modesta mostra di sé, quartieri tristi e incolori), simili sono i dialoghi (scarni ed essenziali, illuminati di quando in quando da folgoranti battute di una laconicità beckettiana: ad esempio, «Hai pianto?» «No» «Bene, tanto non serve a niente»; oppure «Ho speranza? «Un miracolo può sempre accadere» «Non nel mio quartiere»), simili sono i personaggi (una umanità povera, impassibile, grigia e deprimente, ma dotata di una insospettata forza d'animo e solidarietà di classe), persino gli attori ricorrono spesso di film in film (in "Le Havre" la Kati Outinen de "La fiammiferaia" e "Nuvole in viaggio" e l'André Wilms di "Vita da boheme"). Eppure, ogni volta, le piccole novità apportate da Kaurismaki rispetto alle opere precedenti sono importanti e significative: nel suo penultimo film, ad esempio, l'ambientazione non è più scandinava ma è spostata in Francia, e, soprattutto, si affaccia per la prima volta il tema dell'immigrazione clandestina. Il malanimo della gente è sì sempre in agguato (l'odioso delatore impersonato dal fido Jean-Pierre Leaud), la burocrazia e le istituzioni sono spietate, le malattie e le ristrettezze economiche sono sempre in agguato (della serie "piove sempre sul bagnato"), ma questa volta il messaggio si offre senza ambiguità e si apre più che mai alla speranza: la comunità in cui vivono Marcel e Arletty (forse un omaggio al realismo francese degli anni '30 e '40, quello di Marcel Carné) si stringe intorno al piccolo Idrissa per aiutarlo a raggiungere, in barba alle autorità, la madre a Londra, il commissario si rivela a sorpresa un brav'uomo (un po' come il capitano Renault di "Casablanca"), e perfino l'incurabile malattia di Arletty guarisce provvidenzialmente, contribuendo ad un happy end un po' alla Frank Capra. La palese artificiosità del finale, con tanto di ciliegio in fiore, non deve però trarre in inganno: Kaurismaki non si è ammorbidito, non si è convertito ad un buonismo deamicisiano, perché il suo è un cinema che oscilla sempre tra realismo e favola, tra concretezza e astrazione, tra verosimiglianza e assurdo, incurante, pur all'interno di coordinate spazio-temporali ben delineate e di una struttura che evidenzia una cura maniacale per i dettagli (si può quasi dire quante banconote e quanti spiccioli abbiano in tasca i personaggi), incurante – dicevo – di talune incongruenze narrative che volutamente squarciano il fatalismo della quotidianità per permettere l'irruzione della speranza, dell'utopia e del miracolo (è lo stesso meccanismo che utilizza Franz Kafka, che non a caso le amiche di Arletty le leggono in ospedale per intrattenerla mentre sono in visita). Se negli altri due imprescindibili film sull'immigrazione clandestina, "Welcome" e "L'ospite inatteso", i protagonisti occidentali scoprivano attraverso l'improvviso e sconvolgente incontro tra culture diverse una nuova dimensione morale, ma i loro nuovi amici di colore erano inevitabilmente condannati alla morte o all'espulsione, Kaurismaki vuole più irrealisticamente, e forse in un certo senso più provocatoriamente, sfidare l'inesorabile logica dell'attualità e della cronaca per dirci che una pacifica, dignitosa e solidale convivenza tra gli ultimi della terra è sempre possibile (e il cognome di Marcel – Marx – è quasi un simbolico messaggio in codice). "Miracolo a Le Havre" è una stupenda parabola etica, ricca di leggerezza e di grazia, da utilizzare come efficace antidoto contro la rassegnazione, l'egoismo e la depressione che questi tempi bui sempre più spesso inducono nei cuori della gente.