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A QUIET WEEK IN THE HOUSE regia di Jan Svankmajer

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elio91     7 / 10  14/08/2014 23:15:03Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Non uno dei corti migliori del ceco, è vero. Ma non posso essere per nulla d'accordo sulla mancanza di senso.
Questo corto è girato a ridosso del '68 e della primavera di Praga. Il protagonista è un novello si nasconde, non si sa da cosa o da chi (sappiamo però dei problemi fortissimi di Svankmajer con la censura comunista, dell'impedimento a lavorare per anni e anni).
Tecnicamente è affascinante il modo in cui sono contrapposte le sequenze con l'uomo, un tramite per lo spettatore voyer - l'occhio che guarda dal foro è immagine suggestiva, hitchcockiana o bunueliana ad intermittenza - e sono scene in un bianco e nero giallognolo, piene di effetti sonori; come contrapposizione c'è il silenzio dall'altra parte del foro, il colore e la meraviglia allucinatoria di osservare diversi oggetti vivere nel quotidiano: ma non arrivare a nulla in nessun caso.
Come nel più riuscito e gradevole "Picnic with Weissman", gli oggetti di uso comune diventano materia viva per Svankmajer che però non li rende antropomorfi. In "A quiet week in the house" non c'è una vera e propria ribellione all'essere umano, si limitano a vivere i loro brevi cicli di distruzione quotidianamente.
Lungo quasi venti minuti, risulta un cortometraggio pesante perché il primo Svankmajer è schematico e si attiene allo schema in modo rigido, in questo caso fino all'estremo: l'uomo compie le stesse, metodiche azioni ogni giorno, cancellando con una lunga linea la lista compilata.
Giunti alla fine con il protagonista, indaffarato in occupazioni sostanzialmente inutili e che torna indietro prima di fuggire nella selva per compiere un gesto assurdo, ci rendiamo conto che è il tipico personaggio surrealista: un uomo ligio ad un dovere piovuto chissà da dove, fissato fino al parossismo.
C'è però una caratteristica che potrebbe sfuggire: il fatto che il protagonista, alla fine, cancelli l'ultima riga della lista perché osservato. Noi spettatori ci siamo intrufolati con il nostro occhio. Quell'uomo che guarda mentre viene guardato è in fuga da Svankmajer, dallo spettatore, da Dio.

Anche nei corti meno riusciti e più pesanti, il maestro ceco resta indispensabile e profondo.