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GANG regia di Robert Altman

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kafka62     9 / 10  10/02/2018 19:41:23Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Asserire che Gang è, prima di ogni altra cosa, un film sulla coca cola può forse apparire un'iperbole o una provocazione, ma è l'unica maniera per non travisare il suo significato più profondo ed autentico. E' quasi pleonastico ricordare l'impatto che la popolare bevanda (ma lo stesso potrebbe dirsi per prodotti come Marlboro, Brooklyn, ecc.), con le sue campagne pubblicitarie e le sue sponsorizzazioni miliardarie, ha avuto sull'immaginario collettivo moderno, e la sua straordinaria diffusione planetaria, la quale fa sì che sia possibile trovarla in un minuscolo villaggio del Sud-Est asiatico come in una sperduta fazenda della Terra del Fuoco. A un secolo dalla sua invenzione, la coca cola ha potuto così assurgere a simbolo incontrastato della odierna società dei consumi di massa. Ebbene, Robert Altman, non nuovo ad operazioni del genere (basti pensare al bellissimo I compari), ci parla proprio della coca cola, e con essa del conformismo mass-mediologico e dell'omologazione imposta da modelli di comportamento di derivazione prettamente commerciale, ambientando il suo film addirittura agli albori dell'era consumistica, gli anni trenta in America, e soprattutto inserendolo all'interno di un genere molto codificato, quello gangsteristico. Si tratta di un'operazione molto raffinata, che permette di leggere il film a diversi livelli, diegetici ed extra-diegetici. Se il primo livello, più immediato ed evidente, è la tragica vicenda di Bowie Bowers e della sua compagna Keechie Mobley, punteggiata dalle consuete, irridenti notazioni sarcastiche, che fin dai tempi di M.A.S.H. permettono al regista di prendere criticamente le distanze dai suoi soggetti (può essere interessante a questo proposito confrontare Gang con il film che Nicholas Ray aveva tratto nel 1947 dallo stesso romanzo di Edward Anderson), il secondo è appunto quello più propriamente sociologico. Pur non essendoci, all'interno delle singole sequenze, alcun elemento che contribuisca a mettere in risalto il significato dei piccoli atti quotidiani dei personaggi, alla fine il senso del discorso altmaniano risulta chiarissimo. La ripetizione ossessiva di un gesto (*) (i personaggi sono sempre con una bottiglia di coca cola in mano) smaschera alla perfezione, senza bisogno di sottolineature didascaliche, il meccanismo perverso con cui la pubblicità crea un bisogno indotto e lo radica nel consumatore, provocando in lui una sorta di assuefazione all'uso.
Il potere persuasivo della società dei consumi trova una importante conferma in questa considerazione: i personaggi del film sono completamente ignari e inconsapevoli di essere, per dirla con una terminologia tipicamente marxista, delle vittime del capitalismo moderno, essi non hanno cioè alcuna coscienza critica o di classe. Ecco la grande trovata di Altman: quella di fare di Bowie e Keechie dei veri e propri anti-eroi. Persino in Gangster story di Arthur Penn, che pure aveva revisionato profondamente il filone gangsteristico, c'era un epos, sia pure scanzonato e divertito, che conferiva a Bonnie e Clyde un'aura alla Robin Hood (Clyde, presentandosi, dice con orgoglio: "Noi rapiniamo banche"). In Gang, invece, Bowie e i suoi compagni sono dei disadattati, rapinano le banche perché non sanno fare altro (anzi, starebbero volentieri dall'altra parte, come fa capire T-Dub quando dice: "Avrei dovuto fare il medico, l'avvocato, il commercialista, e rapinare la gente col cervello e non con la pistola"), hanno mediocri aspirazioni piccolo-borghesi (il matrimonio per T-Dub, giocare in una squadra di baseball per Bowie). Essi non rivestono alcun ruolo ribellistico e anti-sociale, neppure inconsciamente, anzi essi contribuiscono inconsapevolmente alla diffusione dei miti della società di massa, capovolgendo in una normalizzazione conformistica e reazionaria la loro possibile funzione "altra".
Le sequenze finali del film illustrano molto bene queste tesi. Ignara del fatto che la polizia ha fatto circondare il motel di Mattie, Keechie, in attesa del ritorno di Bowie, si allontana per andare a bere un'ennesima bottiglia di coca cola, ed è proprio questo gesto a salvarla dall'agguato in cui invece cade vittima il suo compagno. Il supino e acritico adeguamento alla forza suggestionante e adescatrice della Merce la preserva insomma da una morte quasi certa e in cambio di ciò la costringe a sparire, a farsi letteralmente ingoiare, nell'ultima scena alla stazione ferroviaria, da una folla anonima e silenziosa.
Se si fa eccezione per quest'ultima inquadratura, in Gang manca paradossalmente ogni aggancio con la realtà sociale. L'apologo di Altman è infatti talmente ingegnoso e sottile da poter fare a meno degli aspetti più "esteriori" e visibili della società americana dell'epoca. Mentre ne I compari, il film che ideologicamente assomiglia di più a Gang, il capitale era rappresentato da uomini d'affari e killers senza scrupoli, i quali si opponevano con la violenza a McCabe, qui apparentemente non è rimasto più nulla. Tutto avviene fuori campo, e il bersaglio della critica altmaniana, anziché mostrarsi con immediatezza, è – se così si può dire – nascosto nell'etere. La radio, infatti, simboleggia, con la sua ossessiva presenza (è sempre accesa, anche quando i personaggi parlano tra loro), quell'invadenza dei mass media che è la causa prima di quel lento ma inesorabile stravolgimento dei modelli di comportamento di cui si è finora parlato. Se in alcuni casi la radio è solo un contrappunto ironicamente enfatico alle azioni dei protagonisti (la serie radiofonica sulla lotta tra g-men e gangster, il discorso del presidente Roosevelt sulla sicurezza e tranquillità dei cittadini), in altri momenti essa è vista con occhio più critico, come perversa instillatrice di forme coatte di consenso, di falsi valori e di un'ortodossia ideologica ovviamente gradita al Sistema. Nella sequenza in cui Keechie e Bowie fanno l'amore, la radio trasmette una riduzione di Giulietta e Romeo, e la naturalezza del rapporto tra i due giovani, i loro giochi infantili, le loro parole banali ("Mi vuoi bene? E quanto mi vuoi bene? Cento sacchi pieni?"), stridono con il fraseggiare aulico degli eroi shakespeariani, generando senza darlo troppo a vedere un sensibile scarto tra vita reale e vita ideale, scarto che è un potenziale produttore di insoddisfazione e sofferenza.
Anche se è ambientata negli anni trenta, l'operazione critica di Altman è attualissima. Il potere della pubblicità e dei mass media è anzi amplificato proprio dalla distanza che separa la vicenda narrata dall'oggi. Quando vediamo la rustica ragazzotta che pubblicizza la coca cola girando su un rudimentale camioncino per i piccoli paesi del Sud non possiamo non pensare per contrasto alle ben più gigantesche e martellanti campagne promozionali dei nostri giorni. E la radio rimanda perentoriamente alla televisione, assai più pericolosa per il suo potere ipnotico e subliminale, per le sue capacità di assuefazione e di obnubilamento delle coscienze. Insomma, non bisogna farsi ingannare dalle apparenze: Altman parla proprio del nostro tempo, e lo fa per di più con un pessimismo agghiacciante e senza speranza. La situazione paleo-capitalistica degli anni della depressione americana è solo un pretesto, un modo come un altro per farci riflettere sul cammino a ritroso che l'umanità ha compiuto in questo ultimo mezzo secolo.
Per ottenere questo, Altman non usa simbolismi o metafore, piuttosto mette in atto un'operazione allegorica estremamente fedele alla "lettera", cioè ai dati visibili del film. Eludendo le aspettative di spettacolarità insite nel genere, il regista smorza l'azione (si ha a tratti l'impressione che nel film non succede nulla, dal momento che non vediamo mai in primo piano né rapine né poliziotti), rinuncia a uno stile appariscente (se si eccettua l'uso insistito dello zoom, vera e propria costante stilistica del film), mette in scena un ambiente e un décor anonimi (campagne fangose, strade connesse, squallidi motel, porte cadenti, frigoriferi arrugginiti, ecc.), utilizza una fotografia lividamente realistica che ricorda i colori delle vecchie foto d'epoca e disegna personaggi che non sono mai all'altezza del ruolo che si trovano a ricoprire (per immaturità, rozzezza o semplice distrazione). Altman è in sostanza l'opposto di un Peckinpah: dove questi enfatizza Altman sfuma, preferendo ricorrere alla forza metalinguistica di un sottotesto incredibilmente stimolante. In Altman, soprattutto, manca la tragedia. Il suo sguardo è troppo distaccato e indifferente alle passioni umane perché i suoi personaggi possano ispirarci una qualche pietà. Anche se la sparatoria finale (ironicamente anticipata dallo scoppio dei petardi del piccolo Alvin) è violentissima, interminabile e volutamente eccessiva, risulta molto più emblematica e aderente allo spirito del film la scena finale della folla che si allontana al rallentatore sulle scale della stazione: essa è l'immagine di una società incamminatasi passivamente e ottusamente verso l'alienante condizione dei nostri giorni. Senza apocalissi, certo, ma con un senso straziante (perché privo di ogni consolazione nostalgica) della profonda crisi morale dell'uomo moderno.

(*) L'iterazione è del resto una costante di Gang cui può essere attribuito un senso più lato, quale quello di caratterizzare psicologicamente un personaggio (si consideri ad esempio il vezzo di T-Dub di attribuirsi un numero di rapine che cresce esponenzialmente nel corso del film senza alcun rapporto con la realtà).