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LENINGRAD COWBOYS GO AMERICA regia di Aki Kaurismaki

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amterme63     6½ / 10  15/07/2012 12:32:19Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Questo film rappresenta secondo me una cesura nel cinema di Aki Kaurismaki, almeno io l'ho visto molto diverso dai film precedenti (anche se non ho visto "Calamari Union"). Con "Leningrad Cowboys" Kaurismaki ha deciso di mettere in risalto più l'aspetto estetico che l'aspetto etico della sua arte.
Fino ad allora Kaurismaki aveva usato uno stile ben definito, caratteristico, molto efficace per illustrare le sue storie di solitudine, incomunicabilità, annullamento esistenziale, estraneità nel e del mondo, disperazione, speranza di fuga. Le immagini fatte di ambienti anonimi, degradati, la staticità e l'immobilismo delle scene, l'inespressività rassegnata, il succedersi sincopato e non drammatico degli "eventi", la sola musica a esprimere lo stato d'animo interiore dei personaggi, erano dei sei semplici mezzi per illustrare storie profonde, significative, a volte anche commoventi (come in "Ariel", secondo me il film più bello visto fino ad ora di Kaurismaki).
Il regista finlandese però finisce anche lui per cadere vittima della tirannia del gusto. In altre parole nella percezione comune di un'opera d'arte nella nostra epoca, l'aspetto esteriore e formale prende il sopravvento e diventa sostanza stessa dell'opera artistica. L'arte di Kaurismaki ha finito per essere immediatamente riconoscibile, assumere identità per come si presenta, piuttosto che per il suo significato. E' l'omologazione al sistema del consumo, al circo dell'intrattenimento sempre nuovo, diverso e originale, a cui tutte le correnti d'arte di rottura sembrano inevitabilmente cedere. Gli artisti stessi alla fine, lusingati dal riconoscimento, aderiscono a questa idea di creazione artistica.
E' così anche Kaurismaki sceglie di fare un film decisamente leggero (come contenuto) e che ammicca a tutte le forme e le stranezze per le quali era diventato conosciuto. Non solo, si prende il gusto di fare riferimento alle forme canoniche ed iconiche del materiale culturale medio, cioè la cinefilia postmoderna (si allude volutamente ai road movies americani tipo Easy Rider e ai film sgangherati, ironici e grotteschi dei Blues Brothers).
In maniera insolita questo film si apre alla bellezza e al fascino dei paesaggi (lui che invece aveva sempre filmato luoghi e ambienti banali e degradati, riservando la "bellezza" a rari momenti pieni di pathos). Anche i mutismi, le recitazioni minimaliste sono usate come "bellezza" e divertimento, magari strano e originale. La narrazione sincopata "aiuta" il film a concentrarsi nel suo intrattenere in maniera grottesca e assurda, lasciando da parte i risvolti esistenziali e sociali. Le stranezze sono tanti "blasoni" e simboli nel contrassegnare la supremazia e il valore del gusto e della forma originale ed eccentrica al di sopra di tutto il resto.
Cosa resta? La musica. Certo qui non ha la funzione sentimentale (così bella e profonda) che aveva nei film precedenti, però è interessante lo stesso. C'è però una piccola scena, quella del barbiere che canta con il banjo la sua solitudine, ecco quella è l'unica scena di valore del film (che potrebbe stare benissimo in "A Straight Story" di Lynch).
Per il resto è un film carino, abbastanza divertente. Tutto qui.