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FAUST (2011) regia di Aleksandr Sokurov

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kafka62     8 / 10  13/05/2018 15:37:45Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"La vita non ha alcun valore, e neppure la morte", dice – più o meno con queste parole – il diavolo a Faust nel corso del loro primo colloquio. Non c'è infatti un senso, uno scopo, una prospettiva, un orizzonte qualsivoglia nella rivisitazione sokuroviana del poema di Goethe. Dio non esiste o non si fa vedere, e Mefistofele è solo un essere deforme, ributtante, grottesco, difficile da prendere sul serio (persino il famoso contratto con cui il protagonista vende la sua anima è un foglio polveroso pieno di errori grammaticali). Se questo è l'aldilà (la solitudine eterna e l'assenza di speranza nel panorama di ghiaccio in cui si inoltra Faust nel finale del film), il mondo terreno (laido, lercio, putrescente, maleodorante e impudico) è ancora più inquietante: gli ambienti sono claustrofobici e opprimenti, le persone si affollano in un continuo e opprimente contatto di corpi, nella più totale mancanza di privacy, la morte nella sua cruda nudità aleggia ovunque. Privo com'è di qualsiasi apertura nei confronti di una ipotesi di salvezza, immanente o ultraterrena che sia, "Faust" è una delle opere più angoscianti che mai mi sia stato dato di vedere: è impressionante come Sokurov rinchiuda il suo universo dentro una cappa asfissiante fatta di inquadrature deformate, prospettive sghembe, colori smorti, scenografie espressioniste e, soprattutto, senza neppure uno spiraglio di positività. In questo magma di promiscuità e follia, neppure l'amore rappresenta un'alternativa (sebbene nel viso di Margarete si apra l'unica immagine di colore acceso del film), ma solo una fugace, quasi impalpabile, parentesi di oblio, prima che la corruzione riprenda il sopravvento. Il protagonista dell'opera di Sokurov è assai diverso dall'omologo goethiano: in lui non c'è nessuna aspirazione al bene, nessun idealismo palingenetico, nessuno slancio etico, ma solo un continuo interrogarsi sull'anima, su Dio e sulle altre grandi tematiche metafisiche, che, in assenza di possibili risposte, si trasforma mestamente in inutile, sterile vaniloquio. Alla luce di quel che si è detto, "Faust" è un film verboso, un film ridondante e barocco, un film sgradevole che sfiora a volte il ridicolo, eppure è anche, in qualche modo, un'esperienza iniziatica per lo spettatore intraprendente ed evoluto, il quale ha modo di veder ripagata la sua fatica con il privilegio di assistere alla creazione di un universo straordinario, in cui Goethe, Brueghel, Bosch, il dottor Caligari, Bergman e Tarkovskij si danno a braccetto, conducendo ad esiti espressivi sorprendentemente felici e originali.