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THIS MUST BE THE PLACE regia di Paolo Sorrentino

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Invia una mail all'autore del commento kowalsky     7½ / 10  19/10/2011 01:48:30Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Preferisco tagliare la torta a metà. Sodalizio irrinunciabile tra Sorrentino e l'America, con uno script imperfetto e un pò affettato al quale sembra che in ogni singola parte vengano aggiunte idee strabilianti (ma anche superflue) per gonfiare un risultato comunque di tutto rispetto. E' il caso del misterioso montaggio: lunghi piani sequenza insieme ad altri di brevità assoluta, quasi menomati dal loro sviluppo narrativo. Scelta calibrata o impotenza produttiva? Ci dice che l'unico film al quale si è ispirato è "The straight story" di Lynch, ma mente spudoratamente. Quanto Wenders in queste lunghe immagini (esplicito il cameo del meraviglioso Harry Dean Stanton)... e quanto Van Sant, sììì ma senza l'esibizione onirica e "distante" (dallo spettatore) delle frustazioni metaforiche del controverso regista.
A dire il vero c'è molto Altman (l'ossessione quasi teatrale per gli interni), molto Jarmush, qualcosa di Sofia Coppola.
E' un mondo di difficoltà e impotenza quella che dipinge (magnificamente) Sorrentino, di personaggi bizzarri e amari che quasi quasi fanno sembrare sobrio Cheyenne e il suo make-up. Uno strano incrocio tra Ian Hunter, Robert Smith e il Terence Stamp di "Priscilla". Il suo sarcasmo dovrebbe essere "punk", come un'invettiva sociale ben definita, ma l'impressione è che Sorrentino abbia creato il suo freak da laboratorio per paura di essere frainteso.
"Anche se bisogna scegliere una volta nella vita, anche solo una, in cui non avere paura" suggerisce il film, e forse è la paura che attanaglia questa prova di Sorrentino. Il tramonto della rockstar decadente e depressa, quasi un trattato da Lester Bangs, stride con il racconto della ricerca di un criminale nazista, con la mano calcata sul senso di "umiliazione" e con il bisogno legittimo o meno di vendetta. Ho avuto l'impressione che davanti a certi grandi temi la novità del film sia l'indubbia capacità di Sorrentino non di affrontarli - a parte il primo epilogo della "vendetta" ma il talento stilistico nel mascherarli.
Un film per certi aspetti "dadaista" nel suo impetuoso ritratto di maschere e nudità riflesse nello spazio di un'universo gigantesco e al tempo stesso minimo come quello della pianura americana.
Credo proprio che questa sorta di universalità ridotta made in Usa sia una delle cose migliori del film, insieme alla moglie di Cheyenne e al fantasma impotente e cmq. forte della figura paterna, in una dimensione dove il tempo non può mai assorbire il dolore ("Ci sono diversi modi di morire, il peggiore è rimanere vivi").
Meno convincenti la figura del cacciatore di nazisti, personaggio del tutto superfluo, o quello stesso inesorabile cammino di sopravvivenza del protagonista che, tra persone scomparse e movimenti no-tav, sembra persuaderci della sua eterna precarietà.
L'omaggio ai Talking Heads è un orpello in più, ma il non-luogo, dove si rappresenta l'involuzione di una società di comparse e illustri estinti racconta comunque un mondo dove è banalmente impossibile credersi redivivi reducisti
strange_river  05/11/2011 00:13:15Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"Anche se bisogna scegliere una volta nella vita, anche solo una, in cui non avere paura"

E questa m'è piaciuta.