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LA STANZA DEL FIGLIO regia di Nanni Moretti

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kafka62     7 / 10  28/02/2018 08:52:17Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Nanni Moretti esce provvidenzialmente dalle secche dell'autobiografismo in cui rischiava di rimanere impantanato dopo "Caro diario" e "Aprile". Nonostante che il titolo – lui neo-papà – sembri preludere all'inevitabile completamento di una trilogia, "La stanza del figlio" è tutto il contrario di un indulgente e narcisistico film alla Moretti, ma è una lucida, pudica e sincera analisi degli effetti che un grave ed improvviso lutto ha su una famiglia come tante altre al mondo. Moretti evita scrupolosamente, con immagini secche e sobrie, il cinema del dolore, e, anche se non si ritrae di fronte allo strazio di un padre e di una madre che hanno appena perso un figlio (con tanto di pianti, urla e occhi rossi), è soprattutto al modo di ciascuno di reagire al proprio dolore che egli dedica la sua attenzione. Se il padre insiste ossessivamente a ritornare con la mente alle circostanze che avrebbero potuto far andare le cose diversamente, fino ad inconsciamente incolparsi di essere accorso quella mattina alla chiamata di un suo paziente (i flash in cui lui continua a immaginare di fare jogging col figlio sono lancinanti e tremendi), la madre tenta di recuperare quasi medianicamente, attraverso gli oggetti, le fotografie e perfino le amicizie del figlio, un rapporto ormai irrecuperabile, mentre la sorella reagisce con inconsulti scoppi di adolescenziale violenza. Elaborazione del lutto, si chiama in termini psicanalitici. Ma anche per chi della psicanalisi fa una professione si tratta pur sempre di procedere a tentoni nel buio più profondo, tra improvvisi cedimenti al dolore e repentini sensi di colpa ogni qualvolta le occupazioni naturali della vita sembrano distogliere dal ricordo di chi non c'è più. Soprattutto Moretti vuole smentire il luogo comune della solidarietà che lega reciprocamente le persone che soffrono. Ognuno è ineluttabilmente solo col proprio dolore, e i due coniugi non sembrano in grado di salvare il matrimonio e la vita professionale da un implacabile senso di autodistruzione che li divora. Ma il gusto per la vita prima o poi ritorna sempre, e anche per loro vale questa regola, sotto forma di un non programmato viaggio fino al confine con la Francia per accompagnare l'amica del figlio conosciuta poche ore prima.
Il film, come già detto, è bello, semplice ed autentico, la sceneggiatura ed il montaggio, assai calibrati, sono sempre attenti a non far mai cadere la pellicola nel facile effetto strappalacrime e gli interventi dei pazienti di Moretti, ognuno con i propri disturbi, nevrosi ed ossessioni, sono funzionali ad allargare la visione del mondo al di fuori di una cerchia troppo privata e personale, oltre a contrappuntare, creando un insopportabile corto circuito emotivo, il cieco dolore dello psicoterapeuta. Se Moretti attore non riserva sorprese (nel senso che si cuce addosso la parte che più gli si confà), la Morante, assente da molto tempo dagli schermi, è invece una moglie-madre di miracolosa intensità e bravura, meravigliosa nel dare dignità e coraggio a una incommensurabile sofferenza materna (come quando cerca a tutti i costi di mettersi in contatto telefonicamente con la sconosciuta amica del figlio). Per chi ama il Moretti più tradizionale non mancano comunque rassicuranti conferme, come la musica di Piovani, la fotografia di Lanci, la sequenza delle scarpe sportive e, ovviamente, tutta una serie di citazioni di autori prediletti, come il Raymond Carver della poesia sulle dita dei piedi e il Brian Eno della suggestiva ballata finale.