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THE TREE OF LIFE regia di Terrence Malick

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Invia una mail all'autore del commento pompiere     8 / 10  17/08/2012 16:57:12Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Ad un ritmo tre volte più veloce rispetto a quello del cinema mondiale medio, "L'albero della vita" di Terrence Malick pianta le sue fulgide radici nell'animo dello spettatore. Fin da subito avvinto da una storia quasi misteriosa, appena annunciata e allo stesso tempo così fortemente drammatica, chi guarda non può non essere catturato da una tensione narrativa che, pur permettendosi di procedere allo scoperto sin dalle prime scene, mantiene una segretezza tutta sua che instilla curiosità.

Grazie a un senso del montaggio clamoroso e a una regia praticamente perfetta (prodiga di giochi di prospettive e di ricorsi a forme geometriche abbacinanti), la pellicola giunge maestosa a bussare alle corde dello spirito. Attraverso stacchi di luogo e di tempo sottolineati da un balletto di fuochi fatui-icone a cui rivolgersi per porre domande esistenziali appena sussurrate e quesiti che attraversano in un lampo i pensieri più profondi, in un estremo tentativo di capire le bizzarrie del destino, conosciamo le avversità della Natura, Regina impietosa e spietata dominatrice, e approdiamo a un amore sfrenato per l'invisibilità filosofica, colei che tira le fila di noi poveri burattini-umani.

Pezzo di Storia del Cinema contemporaneo, quello del regista statunitense è anche, per una ventina di minuti, un componimento poetico per immagini, una raccolta di wallpaper astratti che si rincorrono in un'atmosfera perennemente aulica, durante la quale ogni momento ha la presunzione di essere IL momento. Quel magma profetico che mina(ccia) le nostre intenzioni. "Koyaanisqatsi" post-apocalittico che rade al suolo in modo definitivo qualsiasi speranza, geyser new age, "Giobbe e oltre l'infinito" di trance psichedelica insistita e duratura come la musica che la accompagna, l'operazione malickiana rischia di farsi sorprendere dalle atmosfere documentaristiche à la National Geographic e di generare un disordinato intento evocativo-spirituale.

In questo mondo-acquerello tanto pulito da risultare quasi posticcio, emergono (incredibilmente) gli umani-dinosauri, coloro i quali sono la pre(i)Storia del film: i figli del "Signore" Dio Mr. O'Brien (Brad Pitt) e della "Vergine" Jessica Chastain sono imprigionati nel giardino dell'Eden alla stessa stregua degli spettatori sudditi del dispotico Malick, annoiati dalle favole della buonanotte, irritati dalle preghiere a tavola, insofferenti alle rigide regole imposte dal Padre Padrone che in vita sua vola solo con l'aeronautica militare e il dondolo del soggiorno. Tanto bravo al pianoforte quanto disastroso come genitore, in lui albergano solo residui rabbiosi: prepara i figli alla vita come se dovessero affrontare una guerra (e forse la risposta al dramma iniziale si nasconde proprio dietro un conflitto bellico), li umilia (in particolare Jack, il più grande dei tre fratelli) e insegna loro solo le viltà del razzismo e della cupidigia.

Difficile conciliare la dimensione trascendentale con quella "storica" della narrazione; la testardaggine e l'asprezza del padre è così vera e giunge con toni così densamente drammatici che "l'antipasto visionario digitale" sulla natura rischia di incidere negativamente sulla realtà emotiva dei rapporti umani. Ma la città di Waco, in Texas, è anche il luogo natio del regista al quale possono essere perdonati questi insistiti afflati poetici, queste intense ipotesi evocative, questo debordante riadattamento filologico.