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CANE DI PAGLIA regia di Sam Peckinpah

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Woodman     10 / 10  04/09/2013 18:08:00Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Film sgradevole e stupefacente, diretto in modo dirompente e furibondo (per l'epoca) dal maestro Peckinpah.
La più alta riflessione sulla violenza e sugli astrattissimi, innumerevoli istinti animali, ben resi attraverso il minuzioso trittico regia/sceneggiatura/montaggio, che conferisce una miriade di sfaccettature visive, di veridicità psichica all'opera.
Grandiosa squadra d'attori, uno più allucinante dell'altro.
Un film malsano, sporco, angosciante, gelido, barbaro e profondo, che presenta ogni carattere fondamentale della cinematografia classica: disegno e oscuro scavo dei personaggi, intrattenimento incalzante, magistrale lavoro di montaggio, interpretazioni perfettamente adeguate ai contesti e agli ambienti, colonna sonora strepitosa (di una suggestione in lieve contrasto con l'inquietudine visiva), equilibrio e giusto spazio fra i tempi, intro e finale potenti, cornice grafica perfetta, dialoghi e momenti memorabili a iosa, sapiente fusione di barocchismo frenetico e toni freddi, una romantica fotografia.

Un'analisi acuta, agghiacciante, studiata alla perfezione.
Un lavoro esplosivo, penetrante, sincero e maledetto. Da capogiro, sul serio.
Cosa ci arriva a dire quest'opera magnetica e completa? Che l'uomo è un'entità inconoscibile, pertanto imprevedibile, inesplorabile, ambigua, popolata di istinti animali e indicibili, mostruosi. Emblematico quindi il sapiente gioco di sguardi e comportamenti imbastito fra la George e Hoffman, non ci è dato sapere se questi è in realtà conscio delle violenze subite dalla moglie, possiamo immaginare qualsiasi cosa, lui potrebbe credere a qualsiasi cosa, fatto sta che non ci sono parole, mezzo sin troppo improprio, non ci sono sguardi efficaci, non ci sono gesti realmente adatti a sviluppare un pensiero, una teoria recondita e viscerale, in tutta la sua plasticità e la sua completezza, non si può sfibrare la superficie del dubbio sino a scovarne il cuore più buio. Una dannata realtà. E questa che cos'è se non violenza? Ingiustizia, solitudine, insoddisfazione, incomunicabilità, la si chiami come si preferisce. Peckinpah riunisce tutto ciò in una sola, impenetrabile parola: violenza.
L'uomo è violento per natura, proprio perchè non in grado di esprimere le sue realtà nascoste, le sue sfaccettature più colorite, più profonde, autentiche. L'esterno, al di fuori del nostro universo interiore è grigio o buio, proprio come i toni cromatici proposti dal regista. Una disperazione senza fine.
E se dall'esterno arriva una minaccia di drammatica carica amplificativa, ancora più forte, ancora più potente, aggiuntiva? Si possono ottenere sconcertanti conseguenze. Come un rabbioso e primitivo istinto a capo di indefinibili guerre fra pensieri, astrazioni e sentimenti, che esplode in una selvaggia e psichedelica spirale di perversa malevolenza.
E quanto è bravo Hoffman a rendere quest'idea attraverso una grandiosa performance dalle mille facce e dal fascino ermetico? Dipinge e incide davanti all'obbiettivo un personaggio difficile da dimenticare. Con un'aurea di inquieta presa di coscienza sul proprio destino incerto e sulla sua fragilità, con un muro di lacrime sull'anima, così intangibile, così difficile da descrivere, da illustrare. Macchè, impossibile.
La chiamano sofferenza.
Sublime.
Monumentale capolavoro, esempio perfetto di Grande Cinema.
Un'opera completa, roboante, pazzesca, audace, controversa, aperta a mille interpretazioni, fautore di altrettante soggettive perturbanti, empatiche, condivisibili.
Settima arte a 360°.