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LA BELLEZZA DEL SOMARO regia di Sergio Castellitto

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Invia una mail all'autore del commento kowalsky     5½ / 10  04/01/2011 23:59:05Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"C'è qualcuno a cui piace far cinema sul serio" dice (posso citarti?) un amico di queste parti. Concordo pienamente: dovessi prendere appunti a proposito, "La bellezza del somaro" è prima di tutto un omaggio al cinema, che passa attraverso Bertolucci e Nanny Loy, le frustrazioni borghesi di Antonioni e i baratti faustiani sulla morte di Bergmaniana memoria, ma anche il cinema insolito e dissacrante di Wes Anderson, sicuramente l'influenza più evidente del film di Castellitto. Una sorta di compassata versione "nostrana" dei Tenenbraun di qualche annetto fa.
C'è anche da dire che - a tratti - il film rappresenta in modo superlativo la crisi generazione dei cinquantenni e lo scontro con le nuove generazioni, peccato solo che tutto questo discorso venga a tratti sfumato.
Perchè progressivamente il film - con la sua andatura sbilenca - smarrisce per strada le sue intenzioni e non sempre il nonsense è l'arma migliore per assolvere una metafora realista sulla vita "sospesa", con tanti saluti a Jung, Freud, Nabokov e via leggendo.
Questi intellettuali borghesi che assistono inermi alla loro disfatta morale e culturale erano già insopportabili quarant'anni fa, figuriamoci oggi... senza contare il personaggio di Armando, recidivo ultrasettantenne, che Castellitto § consorte proiettano nell'olimpo dei Guru. Sembra quasi la parodia dell'Harvey Keytel di "Holy smoke" della Champion. Possibile? Possibile che quando potresti dire qualcosa di sensato e utile sulla vecchiaia l'unica via di soluzione sia sempre la stessa? E cioè adottare l'anacronistico clichè dell'anziano dotto e saggio che - come una Divinità paterna (ehm) - osserva tutto quel mondo attorno a sè con la dignità di un'eremo ispirato e misurato.
E alla fine mi domando che tipo di film ho visto e se davvero pochi, grandi pregi non siano alla fine il pretesto per abilitare una sceneggiatura che mostra cadute nella grossolanità (la frase illuminante "la patta dei pantaloni è come l'inconscio, non sai mai cosa ci trovi dentro", le torte in faccia) e nell'effetto risibile di toni grotteschi che talvolta si elevano solo per "il rumore che fanno".
A volte ho avuto come l'impressione che le mie aspettative fossero esagerate e che alla fine l'intenzione sia solo di alzare il tono anche quando non è necessario, e non c'è alcuna ragione di capire il perchè. Perchè non c'è ragione.
Del resto, è un film nato "vecchio", con quel reducismo che prova a essere ancora una lezione di vita, e invece è praticamente il dessert dei sopravvissuti, prima di consumare il loro ultimo pasto.
Positive tuttavia le prove dei comprimari, la Blank è ancora affascinante, la Ponce ci mette una buona dose di autoironia.
Se poi dovessi scegliere con chi parteggiare, in questo disincanto di generazioni perdute, credo proprio che nel gioco della torre non ne salverei proprio nessuno