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UNA SCONFINATA GIOVINEZZA regia di Pupi Avati

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jack_torrence     7 / 10  07/02/2011 19:24:31Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Tutto sorretto da una straordinaria interpretazione di Fabrizio Bentivoglio (capace di rendere naturale la struggente "dislocazione mnemonica" in un passato vivo nell'anima), e da una non meno apprezzabile di Francesca Neri, il film cela, dietro la sua vicenda intima, una feroce disamina del gelido milieu sociale alto borghese romano, aggiungendo – nel personaggio interpretato da Lino Capolicchio – un altro terrificante ritratto di "demone mite" ad altri già presenti nell'opera avatiana.

Certamente il film ruota intorno al (sin troppo abusato) scarto tra presente alienante e passato.
Il riempire i propri pezzi giornalistici di memorie sportive adolescenziali (che se vogliamo costituisce un elemento non proprio di "forza" della sceneggiatura) è un indizio importante di come lo stesso attaccamento dell'uomo per la sua professione sarebbe privo di radici, se non avesse un lontano aggancio in quelle memorie che ora la mente, sfibrandosi, è come se portasse a riemersione.
Sembra quasi che l'Alzeihmer (si è scritto che il suo decorso clinico sarebbe stato descritto qui con molte licenze) si presti ad essere metafora di una regressione solo apparente, segno esteriore di un bisogno interiore forte di recupero di un'età dell'oro in cui l'io e la realtà fossero meno scisse. In questo senso è evidente l'accento posto sullo scarto socio-economico che accompagna le memorie del passato alla realtà attuale: la felicità perduta è situata in un contesto economico precario inversamente proporzionale a quello "privilegiato" del presente (che Avati descrive con dettagli assai realistici: da romano si nota il rispetto topografico in particolare della zona Monti Parioli).
La volontà di smarrirsi nel passato, da parte del protagonista, appare un po' troppo programmatica (come se il regista avesse fretta di liberarsi del personaggio, e di non addentrarsi davvero nel realismo crudo e duro di un racconto che avrebbe potuto farsi insopportabile.
Anche lo spunto, così interessante, costituito dal dilemma morale della moglie (su che tipo di assistenza fornire, anzi meglio: su che tipo di accettazione e adesione emotiva offrire al marito) è approfondito con delicatezza, compartecipazione quasi struggente, ma senza essere condotto alle estreme conseguenze proprio dai bruschi eventi che impongono, verso al finale, una deriva narrativa atta a incuneare il racconto verso un esito drammaturgicamente convenzionale, ma meno "potente" di quanto probabilmente avrebbe potuto essere.
Avati in qualche modo accenna (anche ferocemente) a un conflitto, al quale si sottrae forse conscio dell'assenza di soluzioni. E seguendo perciò in definitiva anche lui la deriva regressiva seguita dal protagonista (fra parentesi: esiste una vistosa differenza di impatto tra le scene contemporanee del film, molto intense [anche per la bravura degli interpreti], e le "memorie", che appaiono molto meno efficaci, perché meno veraci di quanto vorrebbero essere, e restano prossimi al bozzettismo caricaturale).
Resta il sospetto che il non volersi addentrare in modo davvero "lacerante" nel conflitto (quello "familiare"; quello personale della moglie), sia indice di un limite, e di una stanchezza, di poetica.