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ICHI THE KILLER regia di Takashi Miike

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Boromir     8½ / 10  24/01/2023 22:51:25Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Non si può parlare di Ichi the Killer senza spendere prima un paio di parole per il suo regista, Takashi Miike. Costui è una leggenda del cinema giapponese, autore prolifico di ben oltre cento pellicole che oscillano tra l'ottimo e il capolavoro, e un manifesto di un cinema libero ed espressivo, libero da freni e fuori da ogni convenzione. Creatore di intimidatorie pellicole di vario genere, Miike ha rinnovato il linguaggio dell'horror giapponese venato di dramma intimista con Audition, innalzando radicalmente la rappresentazione della violenza estrema per farne un atto artistico puro e anarchico, e ha proseguito su questa scia con i suoi successivi film sulla yakuza o adattamenti di manga di successo. Ichi the Killer è una commistione tra i tre filoni menzionati, basato su un fumetto censuratissimo di Hideo Yamamoto, e probabilmente la summa artistica di Miike, sia sotto il profilo visivo che dal punto di vista dei contenuti. Se in un capolavoro come Audition, il regista nipponico prendeva l'horror per veicolare un discorso viscerale su un rapporto deviato, Ichi the Killer affronta il tema inserendolo in un contesto (quello della malavita nipponica) in cui l'efferatezza della violenza è un modo di esprimere il proprio ego o il mezzo per aspirare al tornaconto personale.
Come al solito nel cinema di Miike, il ritratto del mondo della yakuza rimane sullo sfondo perché il film vuole parlare d'altro. In Ichi the Killer il fulcro di tutto è ovviamente il rapporto tra Ichi e Kakihara, speculare, (auto)distruttivo, visto da entrambi come un fuoco di paglia da vivere fino in fondo, da consumare una volta soltanto. I due protagonisti sono archetipi delle parti sadiche e masochiste insite in ogni essere umani, e le loro personalità vengono delineate con la giusta perizia psicologica per far sì che la credibilità di questa "relazione" dai netti contrasti non venga annullata dalla totale follia visiva e narrativa del film. Da non sottovalutare la sottotraccia sulla violenza (specie verso le donne) dell'ambiente criminale giapponese, di cui Miike ne esaspera la rappresentazione pur non trascurando l'impatto traumatizzante che la stessa ha sui profili psicologici dei personaggi. La condanna al ricorso indistriminato di torture e barbarie di vario tipo non toccherà i livelli di brillantezza di Arancia meccanica ma è comunque in grado di turbare e far riflettere insieme.
Su tutto questo spicca l'impressionante competenza registica di Miike, la sconcertante naturalezza con cui il cineasta inquadra l'azione in modo mai errato e sempre affascinante. Le fiammate visive della fotografia al neon e il montaggio "videoclipparo", frammentato a suon di rallenty e accelerazioni dovutamente dosati, impreziosiscono la narrazione di un'aura alienante di sicura efficacia; le pennellate di humour nerissimo, invece, corrono in aiuto di Miike per stemperare gli eccessi di truculenza in primo piano, la quale naturalmente deve tenere lontano chi troppo sensibile. Poi c'è molto altro da scoprire nel film, a partire dall'interpretazione di Shinya Tsukamoto (a cui Miike ha affidato un ruolo coerentissimo con la poetica del regista di Tetsuo). Facilmente il cult movie per antonomasia dei primi anni Duemila, fondamentale.