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CHINATOWN regia di Roman Polanski

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amterme63     8 / 10  02/02/2011 22:11:14Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Un ottimo e solidissimo film di genere, splendidamente interpretato e diligentemente diretto. La classe non è acqua e quando un regista è dotato, riesce a fare bene tutto e adattarsi a qualsiasi circostanza. Polanski negli anni '60 ci ha dato un saggio di tecnica cinematografica originale, con storie che esploravano acutamente tanti lati del vivere interiore e sociale umano. Bravura e fantasia tecnica erano abbinate a profondità di pensiero.
Con gli inizi degli anni '70 la sua arte attraversa una crisi e non riesce più a essere così profonda e ricca di spunti di pensiero. Accetta di adattarsi alle regole dei generi e allo stile classico. Conserva però la grande bravura tecnica e la perfetta padronanza del mezzo. I modelli con cui rivaleggiare non sono più i grandi della nouvelle vague e del cinema esistenzialista, bensì i classici americani del thriller e del noir.
"Chinatown" si basa quindi soprattutto sull'intreccio, sui colpi di scena, sulle sorprese, sulle incertezze e sulla suspense. La storia non dà requie. Dalla prima all'ultima scena la presa non viene mollata e si rimane come attratti e incollati allo schermo. La sceneggiatura si svolge in maniera plausibile, calcolata, perfetta nella sua scansione scenica e temporale. C'è il meglio di Hitchcock in questo film (mi ha fatto pensare alla lontana a "La donna che visse due volte").
La storia si svolge negli anni '30, ma è così congegnata e recitata che il tempo passato forma appena una patina leggera e sembra di vivere la vicenda al presente. Questo è senz'altro un pregio. C'è anche molto di anni '70 in questa pellicola. In quegli anni ci fu un revival della figura dell'investigatore privato di stampo chandleriano, uno degli eroi del genere noir/hard boiled. Altman girò in quegli anni "Il lungo addio" e Arthur Penn "Bersaglio di notte". Con questi film "Chinatown" condivide il quadro in una società senza certezze, senza punti fermi, dove non esiste etica positiva certa e vincente, dove chi è coerente e onesto perde e dove il male e l'incertezza hanno sempre l'ultima parola. La verità trionfa solo in quanto viene svelata e fatta conoscere allo spettatore, ma non ha alcun riscontro pratico ed effettivo nella realtà filmica. I protagonisti prendono l'intera scena e troneggiano positivi nei confronti di una società allo sbando. E' l'inizio del mito del giustiziere solitario, che avrà enorme fortuna nel corso degli anni '70.
Rispetto ai film dei suoi colleghi americani, questo dell'europeo Polanski è paradossalmente più "conservatore" e tradizionale. I canoni del genere sono rispettati alla lettere e anzi costituiscono l'ossatura stessa del film. Del Gittes quotidiano e banale non sappiamo quasi niente, nel film c'è solo storia e indagine. Si sente già aria di "restaurazione", la quale verrà portata a compimento dal "Padrino" di Coppola. Ma qui non si tratta di giudicare il ruolo storico artistico, qui abbiamo a che fare con qualità artistica di prim'ordine. Peccato solo che ci sia fondamentalmente soltanto questa, che non si vada troppo al di là di un coinvolgente intreccio thrilling con qualche risvolto politico e sentimentale. In "Cul de Sac" e "Repulsion" c'era certamente molta più sostanza.