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MACBETH regia di Roman Polanski

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dobel     9 / 10  06/04/2010 09:25:36Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
L'opera con cui Polanski tornò al lavoro nel 1971 dopo la tragedia di Bel Air è una delle più cupe tragedie del Bardo inglese. 'Macbeth' rappresenta la brama di potere, l'ambizione sfrenata e la cecità di fronte ad un destino che non può che essere sanguinoso. Una tragedia trasposta sullo schermo in modi e tempi differenti con almeno due punti di riferimento imprescindibili: Welles e Kursawa. Allo stesso modo è punto di riferimento fondamentale l'opera verdiana (uno dei capolavori del melodramma romantico ed una lettura Shakespeariana di profondità abissale). Polanski in qualche modo rielabora e sublima la propria tragica esperienza in un film a suo modo straordinario. Siamo di fronte ad un lavoro di pura regia (non essendo gli interpreti all'altezza di quelli sfoggiati nei due precedenti sopra menzionati), nel quale gli attori si inseriscono in modo funzionale alla visione d'insieme di Polanski. Debbo dire che, al pari di 'Tess', è uno dei film del maestro polacco che mi hanno maggiormente soddisfatto. L'universo di Polanski è infestato di spettri, ombre e inquietudini: i suoi film non sono mai pacificatori o accomodanti; una produzione discontinua è legata dal filo rosso dei dèmoni interiori. 'Macbeth' si presta in maniera eccezionale ad una visione poetica nella quale il demoniaco si sposa al 'troppo umano'; così la visione registica viene declinata in un ambiente di gelido squallore, su spiagge umide e fredde, in una campagna irlandese dove la vegetazione non è rigogliosa e ricca bensì scarna e grigia. I nobili e i regnanti vivono in austeri castelli in mezzo a porci e galline; Macbeth e Lady Macbeth sono due giovani ambiziosi pronti a tutto; le streghe sono delle vecchie uscite da un quadro fiammingo. Una regia, a mio parere, grandissima, che si avvale di una splendida fotografia e di un sapiente utilizzo di musiche folkloristiche di derivazione medievale. Un ritorno alla regia di grande profilo, di grande eleganza, e grande profondità. Rispetto a Welles e a Kurosawa siamo di fronte ad un film che non può vantare altrettanti grandi interpreti, ma sicuramente una regia di pari valore.
Non si tratta, come qualche commentatore ha insinuato, di tratti di novità nella lettura polanskiana (supportata dalla consulenza critico-letterara di Kenneth Tynan), bensì di una trasposizione classica magnifica e di straordinaria unità stilistica.