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LA GATTA SUL TETTO CHE SCOTTA regia di Richard Brooks

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amterme63     7½ / 10  24/03/2009 23:07:31Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Pregi e difetti del cinema di Hollywood. I pregi stanno soprattutto nella perfetta resa visiva, nell’oleato meccanismo narrativo, nel coinvolgimento emotivo dello spettatore. In altre parole questo film, come la maggior parte dei film degli anni 40/50, non annoia, coinvolge, soddisfa il desiderio dello “spettatore comune” di godere della vista della bellezza fisica e di assistere a conflitti sentimentali ed etici, risolti con il lieto fine.
Tra l’altro non è facile interessare per quasi due ore su di una vicenda molto teatrale, con lunghissimi dialoghi e che si svolge in pratica fra quattro mura. Eppure Brooks ci riesce. Prima di tutto si fa aiutare dalla presenza fisica magnetica di Paul Newman e di Liz Taylor che senza raggiungere picchi artistici di recitazione, catturano lo spettatore nel gorgo dell’espressione dei loro sentimenti morbosamente complessi. Hanno tutto un porsi davanti alla mdp che rende i loro personaggi qualcosa di elevato e speciale, pur rimanendo lui un famoso giocatore decaduto e alcolizzato e lei una moglie insoddisfatta. La loro recitazione è una via di mezzo fra la naturalezza e l’istrionismo teatrale.
Brooks ci mette poi del suo ponendo i personaggi scenicamente davanti a specchi, oppure muovendoli in maniera studiata a formare inquadrature quasi simboliche del loro stato d’animo (distacco, separazione ma allo stesso tempo bisogno l’uno dell’altro).
Altro “trucco” per catturare l’attenzione degli spettatori è quello di presentare il conflitto e svelarne poco per volta tutti i retroscena, come in una specie di puzzle. La curiosità di sapere perché Brick (Paul Newman) rifiuta così recisamente le grazie di tanta moglie (un’appetitosa Liz Taylor) intriga molto, senz’altro. Come pure incuriosisce assistere ai conflitti e alle lotte in una famiglia che dovrebbe invece vivere in felicità e armonia, grazie alla grande agiatezza con cui vive.
Il film diventa quindi l’occasione per presentare uno dei classici conflitti che animano la società americana, cioè quello fra ricchezza materiale e genuinità dei sentimenti. Per far ciò si presentano protagonisti con doti fuori del comune (Brick è stato un grande giocatore di football, suo padre è un ricchissimo possidente) alle prese con la negazione di loro stessi (uno finito alcolizzato, l’altro con i giorni contati). Sono difficoltà e situazioni che fanno imparare loro cos’è che vale veramente: non è il successo e la ricchezza, ma la sincerità e la forza del legame affettivo. Non si vogliono assolutamente negare le basi materialiste del mondo americano (anzi, il possidente che si è fatto da sé, è lodato ed esaltato), semplicemente raccomandare di non ridurre la propria esistenza al puro rapporto materiale ma di coltivare con il resto del mondo un rapporto diretto ed emotivamente sincero.
Sul banco degli imputati c’è quindi l’ipocrisia, rappresentata dal fratello di Brick e dalla sua grottesca moglie. E’ una rappresentazione fin troppo facile e scontata. Infatti come Brick e la moglie Maggie sono belli e sensibili, gli altri sono brutti, volgari e materiali. Ma la contraddizione più grossa del film è quella di condannare l’ipocrisia e allo stesso tempo rimanerne vittima.
Nel film aleggia un fantasma che si chiama omosessualità. La ragione della depressione e della “castità” di Brick è nel rapporto con Skipper, suo compagno di squadra. Da quello che si capisce si tratta di una vera e propria relazione amorosa, altrimenti non si riuscirebbe a spiegare la reazione emotivamente così intensa e radicale che avuto Brick dopo eventi tempestosi che hanno coinvolto i due “amici”. Si suggerisce (e anche con evidenza) ma non si dice. Di conseguenza il personaggio di Maggie scade un po’, visto che sembra quasi ostinarsi a non capire o a non dire apertamente quello che pensa.
Ci pensa comunque il solito affrettato e posticcio lieto fine a sistemare i rapporti fra i coniugi e a rovinare definitivamente il film.