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IL TEMPO CHE CI RIMANE regia di Elia Suleiman

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Invia una mail all'autore del commento LukeMC67     9 / 10  16/06/2010 01:19:07Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Mentre noi Occidentali non siamo capaci neanche di guardare in faccia la nostra bimillenaria cultura profondamente antisemita (gli Ebrei erano o no "popolo deicida"?!), né, tantomeno, i suoi effetti nefasti in particolare dal Nazismo ad oggi, da quei popoli martoriati arrivano invece sempre più espressioni di analisi e di sguardi (auto)critici o pesantemente (auto)ironici. In particolare proprio la Israele della impasse politica attuale sembra essere la culla migliore di artisti che non risparmiano critiche alla propria storia o che sanno filtrarla attraverso le lenti spesse del disincanto e del grottesco.

Suleiman va oltre e arriva alla perfetta straniazione attraverso una regia rigorosissima (mai come in questo caso il termine italiano "regia" è inadeguato a rendere l'operazione di lucida "mise en scène" operata in questo film) e un proprio silente "mettersi in scena" (appunto!) che ci regala un volto -il suo- perfettamente imbilico tra l'impotenza e l'incredulità.

Sarà una moda, ma i registi più rivoluzionari del momento sembrano ormai prediligere lo "stile-Haneke": inquadrature fisse, rigorosissime nella loro costruzione fotografica, lunghe, talvolta lunghissime; niente montaggi serrati (bastano la tv e Hollywood per questo!), niente -o pochissime- soggettive, dialoghi scarni, essenziali, grandi silenzi o intere sequenze lasciate al commento musicale. Cinema allo stato puro, insomma; fine delle contaminazioni-degenerazioni televisive, si torna alle origini del mezzo, si torna all'immagine, ovvero alla fotografia.
E come non apprezzare le complesse soluzioni visive che Suleiman ci profonde a piene mani (pardon, a pieni occhi): godetevi la scena del ferito conteso tra medici e militari in un ospedale israeliano, per esempio.
Ma lo stile di Suileman differisce notevolmente da quello di Haneke: se il Maestro austriaco è un mago dell'immagine non-visibile, suggerita; se egli incalza sulle prospettive inaspettate e sulle realtà che rimarrebbero "fuori campo" se descritte da una regia "classica" (pensate alle insistite inquadrature degli interlocutori dei protagonisti che parlano nel suo "Nastro bianco", per esempio), Suileman fa l'esatto contrario: mostra tutto il mostrabile da varie angolazioni non risparmiando nulla ai suoi spettatori. Ma, ed è qui il tocco di genio, nel mostrare tutto tiene una distanza, un distacco che ci trasmette palpabilmente quell'impotenza che lo pervade.
Il grottesco gronda da ogni quadro della descrizione soggettiva della storia di Israele che Suileman ci propone attraverso la storia della sua famiglia; e nell'incedere del tempo che rimane da vivere (e che è vissuto) si consuma l'apparente stemperarsi di passioni attraverso una omologazione che l'America "colonialista", "imperialista", ma necessaria, finisce coll'imporre culturalmente.
Non ci sono solo "Spartacus", "Titanic", o il delizioso brano dance della sequenza della festa e del finale che fonde mirabilmente disco-music a melodie o ritornelli arabeggianti da world-music; c'è semplicemente la stanchezza di stare perennemente all'erta, c'è la voglia di quotidianità, quella quotidianità che nella prima parte del film (dedicata al passato) si traduceva nella ripetizione pedissequa di situazioni uguali a se stesse mentre oggi si banalizzano attraverso il semplice ignorare la situazione di assedio in cui arabi e israeliani vivono vicendevolmente. Una situazione che è già assurda e grottesca in sé: chi assedia chi?
Se lo smarrimento del regista è totale ed è straordinariamente reso dalla surrealissima sequenza di apertura (un piccolo capolavoro nel capolavoro: veri amanti di Cinema, godetevela senza moderazione!), l'apparente sguardo severo che egli dà del (e sul) presente è in realtà accompagnato dalla asciutta crudeltà con cui ci viene mostrata la tentata esecuzione del papà da giovane o il suicidio del giovane idealista, così come dal caustico surrealismo delle iniziali sequenze del soldato iraqueno intento a marciare verso città "da liberare" o, ancor più, dalla firma della resa agli ebrei invasori del nonno, Sindaco di Nazareth: all'assurdità delle disposizioni imposte dall'Esercito israeliano fa seguito lo scatto di una foto-ricordo di cui noi vediamo solo... i goffi preparativi e il deretano del fotografo (!) mentre l'istantanea che ci viene mostrata subito dopo è quella dei notabili che stazionavano DIETRO al fotografo stesso!! Geniale.

Potentissime le parti puramente "visionarie" del film: come non avere stampato in mente il salto con l'asta aldilà del muro recentemente costruito a Gerusalemme o il diluirsi nel ritmo martellantemente "dance" delle intimazioni militari al coprifuoco durante la festa dei giovani a Ramallah; per non parlare del carro armato che punta pedantemente il proprio cannone su un giovane spensierato dal momento dalla sua uscita di casa per gettare l'immondizia nel cassonetto prospicente fino all'intera sua telefonata agli amici per invitarli alla festa della sera, il tutto nella assoluta noncuranza del giovane stesso... E proprio quella sequenza dà la filosofia del film: ormai la situazione mediorientale è scaduta a livello di tragica farsa dove si gioca per sfinimento sui sentimenti più profondi della gente, stanca di tutto. Che si ribella sfidando i poteri con l'arma dell'indifferenza, forse più potente di ogni arma da combattimento.

Lo sguardo del regista, però, è pessimista al massimo: nel tornare a trovare la mamma malata

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seguirà l'impietosa sfilata di teppistelli che parlano delle loro bravate trascinando il poliziotto che li ha ammanettati come un cagnolino impotente, piegato e umiliato perché svuotato del suo ruolo. Se nel '48 l'azione del giovane padre era tesa a combattere un nemico e a salvare vite umane, oggi l'azione dei giovani è narcisisticamente fine a se stessa, generatrice di violenza effimera e sostanzialmente inutile perché buona a gonfiare solo il proprio narcisismo adolescenziale. E anche lo studio può al massimo permettere di saper guardare; ma a distanza, però, perché di partecipazione e di identità collettiva non c'è neanche l'ombra (altrettanto geniale il "duello" a colpi di colonne sonore famose ingaggiato tra i tre invecchiati protagonisti e un giovane che passa sulla stessa strada solcata all'inizio del film dal soldato iraqueno).

Ultima nota sui dialoghi: molto serrati e verbosi nella parte dedicata alla sua famiglia di origine, via via scarni fino a scomparire (o a confondersi con la musica) dal momento dell'entrata in scena del regista fino a quel momento rimasto in sfocatura e in penombra sullo sfondo dell'auto che lo riportava in Israele dopo la lunga permanenza negli Stati Uniti. Se i luoghi della memoria rimandano inevitabilmente alle origini, essi vengono però sfigurati irrimediabilmente dalla realtà (devastante la "gentile irruzione" del marito della badante della mamma, non a caso anche lui poliziotto): non restano allora che la Memoria e il Sogno.
E la potenza del Cinema che li descrive.
Delfina  06/08/2010 18:55:19Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
IL REGISTA, Elia Suleiman, non viene da Israele, anzi, È ARABO PALESTINESE! Non si capisce pertanto la tua affermazione "Israele culla di artisti..." ... meglio informarsi prima di scrivere strafalcioni così grossi.
Invia una mail all'autore del commento LukeMC67  06/12/2010 22:44:48Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Hai totalmente ragione, Delfina. Chiedo venia senza riserve.