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L'UOMO CHE VERRA' regia di Giorgio Diritti

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gerardo     6 / 10  22/02/2010 11:40:36Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Abitare le stanze vuote, colmare il silenzio e il vuoto che resta. E' questo l'aspetto più pregevole del film, che per tanti altri versi invece si perde in direzioni che non sa o non vuole trovare.
Al centro del racconto di Diritti vi è una comunità montana, contadina, simbolicamente rappresentata da una famiglia allargata dai nonni ai nipoti e della quale si sottolinea il carattere fortemente matrilineare. Diritti ne fa un quadro antropologico, posto di fronte alla catastrofe della guerra e all'apocalisse della strage, dello sterminio pianificato.
E' una strage degli innocenti quella di Marzabotto e del Monte Sole. Di riflesso, quello che Diritti pone a fondamento del suo racconto è un "innocentismo" quasi concettuale, assoluto. Ed è qui, a mio avviso, che fallisce, perché cade in una sorta di trappola morale della Storia. Il film è pervaso da una visione quasi manichea tra l'innocenza assoluta e la corruzione/abiezione dell'uomo, persino nelle figure che sembrerebbero più sfumate. Ciò che lascia perplessi è proprio l'esibizione continua dell'innocenza, che si concreta nella narrazione dal punto di vista della piccola Martina. Non a caso nel film un ruolo preminente è affidato proprio ai bambini. Diritti pone nelle parole (scritte) di Martina un concetto di innocenza rispetto alla guerra che sembra, invero, appartenere poco alla stessa bambina, ma molto all'idea di innocenza dei bambini che hanno di loro gli adulti di oggi. E', per così dire, un'innocenza d'ordinanza forse poco realistica nel concreto. Ché i bambini sapevano cos'era la guerra, ne erano pienamente coinvolti, sapevano chi combatteva chi e perché. Talvolta erano anche diretti, attivi protagonisti della guerra, già schierati più o meno consapevolmente. Nemmeno il bambino discolo/partigiano di Calvino è così innocente di fronte agli eventi.
Nel film, poi, non ci sono adolescenti: i ragazzi o sono bambini o sono giovinetti già pronti per imbracciare le armi e fare i partigiani. Su questi aspetti, più che il realismo (storico-antropologico), non mi convince proprio l'impostazione ideologica: un eccidio di proporzioni spaventose come quello di Marzabotto, nel quale sono state sterminate quasi scientificamente centinaia di civili inermi, non ha bisogno della sottolineatura dell'innocenza delle vittime. L'orrore si spiega da solo. E questa sottolineatura mi arriva quasi come una giustificazione dell'opera stessa di fronte alla Storia, come se la si temesse, come se si chiedesse il permesso alla Storia di raccontarne gli orrori, col timore di sbagliare.
La questione del realismo, però, non è secondaria. Se si vuole rappresentare un microcosmo umano in senso naturalistico, non si può sospendere lo stesso realismo su altri aspetti, anche se questa sospensione dovesse essere funzionale alla narrazione e all'obiettivo che si vuole raggiungere. Mi riferisco in particolar modo alla rappresentazione dei partigiani. Nel film non si sa bene come trattarli, quasi fossero delle figure imbarazzanti nell'economia del racconto. Non si capisce se essi siano un corpo estraneo alla comunità rappresentata, al pari dei tedeschi, o se ne siano parte integrante (come sembrerebbe da taluni passaggi del film e dall'uso del dialetto che antropologicamente lega i partigiani alla popolazione), ma dai quali prendere le distanze perché essi usano lo stesso "linguaggio" dei tedeschi, cioè quello della violenza, della crudeltà, della guerra. In questa semplificazione storicistica, nel film non si vedono i fascisti, se non nella figura del podestà, in un brevissimo passaggio iniziale. E questo è un fatto quanto mai singolare in un film che cerca col realismo (sì, poetico) di rinsaldare i fili della memoria.
I partigiani sono rozzi e violenti, il reclutamento nelle proprie fila assomiglia più a un rito d'iniziazione che altro, rito in cui si testano già le capacità combattentistiche e la fedeltà ideologica o si vagliano i sospetti di spionaggio. Creando in tal modo un'immagine dei partigiani come pistoleri disorganizzati e folkloristicamente invasati. Passi la rozzezza di molti, persino la violenza, che visto il contesto bellico appare del tutto naturale, ma che fossero degli sprovveduti è un po' difficile da accettare. Forse poteva accadere alle prime sparute e spontanee formazioni negli ultimi mesi del '43, ma non sempre. Il loro capo, Lupo, è poi una figura sfuggente, slegata dalla sua comunità, una sorta di bounty killer da film western. Fosse stata questa la Resistenza, sarebbe stata sgominata in un batter d'occhio. Mentre sappiamo quanto le bande partigiane fossero militarmente organizzate e quanto trovassero forza e sussistenza proprio nel senso di appartenenza alle comunità d'origine.
Quando il partigiano, davanti agli occhi di Martina, ammazza a sangue freddo il tedesco, la semplificazione simbolica della violenza rischia di ridicolizzare la Storia, ancorchè morale, militare della Resistenza: è difficile che i partigiani si attardassero a far scavare una fossa da un tedesco catturato per poi ammazzarlo: è una cosa che proprio non fa parte della condotta militare partigiana, ché basava le proprie azioni sulla velocità d'esecuzione (non avendo altro – in senso militare – a proprio favore). La crudeltà e il sadismo i partigiani proprio non se li potevano permettere. Non fosse altro che i tedeschi, quando catturati, erano un prezioso bottino per lo scambio di prigionieri.
Il distacco fisico dei partigiani al momento della strage è visto come una colpa, un po' vile, quasi fossero spettatori estranei – e inerti – di un massacro al quale, in qualche modo, essi stessi hanno contribuito. Come se quelle donne straziate non fossero le loro madri, le loro sorelle, fidanzate...
In generale, ho l'impressione che nel cinema di questi ultimi anni, i partigiani e la Resistenza non si sappia più come rappresentarli, come collocarli, ché ogni posizione potrebbe provocare imbarazzi. E tutto ciò io lo trovo assolutamente ingiustificabile.
Invia una mail all'autore del commento LukeMC67  23/02/2010 00:42:59Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Non sono d'accordo con la tua lettura: purtroppo la Resistenza e chi l'ha condotta non sono stati vissuti da tutti in maniera schietta. E' stata una guerra con un voltafaccia di alcuni, la reazione di pochi altri e la "terzietà" dei più, che si sono trovati a subirne le conseguenze.
In un clima generale di violenza esasperata, poi, dubito che si sarà stati a guardare per il sottile anche in campo partigiano...
A mio parere, invece, proprio quelle scelte che tu hai interpretato come limiti ideologici del film servono perfettamente a descrivere il disorientamento generale che fu vissuto e che mi è stato raccontato anche dai miei con molto imbarazzo e con invariato stupore pur a distanza di tanti e tanti anni.
Questo, naturalmente, non deve costituire un alibi per buttare a mare ciò che è stato costruito ma un'occasione per confrontarci con tutte le ambiguità, i limiti e il dolore che quegli eventi hanno portato con sé. Invece il popolo italiano sembra aver scelto la (comoda) via della rimozione. Ne mangeremo presto i frutti avvelenati, temo.
gerardo  23/02/2010 18:27:09Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Ciò che contesto al film è la semplificazione ARBITRARIA degli eventi, delle parti in conflitto e della moralità di ognuno. La semplificazione - talvolta anche necessaria per la narrazione - ha sempre come risultato di rendere la realtà simbolica e universale. Per far sì che il simbolico rappresenti la realtà ciò che viene raccontato con quel simbolo dev'essere, per l'appunto, emblematico dell'argomento trattato. E questa resa nel film non c'è, storicamente parlando. Non ho detto che la Resistenza fosse un monolite ideologico privo di sfumature, ma ho contestato la rappresentazione "simbolica" dei partigiani che se ne fa. Chissà, magari sarà anche capitato che qualcuno, lasciandosi prendere la mano, abbia fatto scavare la fossa a un tedesco prima di farlo secco, ma sarà stato un caso isolato, quindi non può diventare simbolico ed emblematico di una condotta generale ampiamente diversa tenuta dai partigiani. Tra l'altro ho anche specificato nel mio commento: "condotta militare" dei partigiani. E ripeto, essendo i tedeschi catturati troppo preziosi per eventuali scambi di prigionieri partigiani, atti simili a quello mostrato nella scena citata sono da ritenersi altamente improbabili nella realtà. Al punto che iniziative del genere sarebbero state punite anche severamente dagli stessi capi partigiani.
Quella scena, però, aveva una funzione ben precisa per il racconto e per l'ideologia del film: mostrare la lontananza morale della bambina (che, nel suo candore, è il simbolo e l'interprete dell'innocenza della comunità stessa poi sterminata) dalla violenza della guerra. E questa è una strumentalizzazione inaccettabile. Non si può utilizzare il realismo (della Storia) per comodità, solo per raccontare certi aspetti (quelli antropologici), e lasciarsi andare alla libera interpretazione storica per raccontare il resto. E che dire dell'assenza dei fascisti dal film? Di tutti quei rastrellamenti fatti solo dai tedeschi? Come semplificazione mi sembra davvero eccessiva e si rischia di prendere un po' a caz.zi in faccia la Storia.
Quanto al discorso della "terzietà", questa categoria comprende un'infinità di posizioni e ciascuna con altrettante motivazioni. Mi guardo bene dal giudicarle. Tralasciando volutamente l'attendismo e posizioni simili, la terzietà non è sinonimo di imparzialità. Così come la non partecipazione diretta, attiva alle azioni della Resistenza da parte della popolazione "civile" (fossero essi contadini, operai, semplici cittadini) non significa che essa non sia stata di supporto in qualche modo, soprattutto in montagna. Quel distacco morale che Diritti pone tra la popolazione civile e i partigiani nella realtà non è esistito, perché complessivamente era da quei casali mostrati nel film che venivano gli stessi partigiani. Essi erano i fratelli maggiori e i padri di Martina, la piccola protagonista, non dei pistoleri venuti da lontano ed estranei a quel piccolo universo. E con quei contadini essi condividevano tutto, anche le scelte di lotta e di schieramento. Che poi molti (di quei contadini) non combattessero è un'altra questione, ma non di imparzialità o di non schieramento.
Poi, anche mostrando tutte le affinità e tutti i legami tra la Resistenza e le popolazioni civili, quindi rinunciando all'immagine assoluta di estraneità alla guerra, di terzietà di queste (che invece nel film si dà), sarebbe stata meno viva la sensazione d'orrore per l'eccidio di civili inermi? Questo è un aspetto davvero imperdonabile del film.

strange_river  23/02/2010 20:42:36Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Ho letto con interesse il tuo punto di vista e quello su cui dissento non è certamente sul valore storico della resistenza a cui tu stai dando risalto (o sulle figure e comportamenti dei partigiani), ma sul fatto che secondo me questo non è messo in discussione in alcun momento nel film, nè, a mio avviso, ne viene defraudato di alcun peso.
Il punto di vista di Diritti è "dal basso", con tutto quel che comporta, e non è un film "sulla resistenza" in senso storico, tantomeno militante (spero che ci capiamo sul significato di questo termine).
Pensa anche a quel dialogo iniziale a pranzo, quando viene detto "siamo ignoranti, saremo sempre ignoranti" : quanta rassegnazione c'è in quelle parole? ma quanto fa parte di una mentalità degli "ultimi" questo pensiero?
Non per questo credo che Diritti approvi o sostenga tale fatalismo, solo lo racconta.
Il sostegno alla lotta partigiana di cui tu parli a me sembra sia chiaramente ritratto nella quotidiana "normalità" in cui ad un certo punto veniva necessario scegliere e se l'ideologia muoveva una parte di chi imbracciava le armi, per molti altri veniva dopo la stretta necessità del doverla fare, cosa che per me non sminuisce di una virgola il coraggio e il significato.
Perciò non ho visto il distacco morale o terzietà di cui tu parli in nessun momento del film, anzi, ne ho percepito la sofferta partecipazione.
Di più: se posso azzardare, è proprio raccontando così quel mondo contadino, le cui pene non iniziavano certo con la guerra, e facendo dei partigiani delle figure meno eroiche, per come siamo abituati a pensare noi all'eroismo (non dico tu, dico in genere, ai tempi d'oggi e con la pancia piena), che rende ancora più onore a chi si è battuto.
La scena che citi ha ovviamente colpito anche me e ha sicuramente il significato che hai spiegato: quello scavo di fossa esalta solo quel candore di cui parli (è davvero così negativo?) e non mi pare possa gettare fango su nessuno (per quanto tu sostenga possa essere stato improbabile nella condotta militare).
Comunque capisco l'angolazione con cui l'hai letto..



gerardo  25/02/2010 01:39:21Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Ehm... scusa se insisto. :) C'è un'altra scena fortemente significativa sulla percezione della distanza tra i partigiani e la comunità: quella in cui arriva nel cortile la salma del partigiano ucciso, con la disperazione della madre del caduto. Noi la vediamo - se non ricordo male - in pseudosoggettiva con gli occhi di Martina (e Martina rappresenta tout court la comunità nel racconto di Diritti), la spiamo con lei dalla finestra della casa, schermata da un vetro, lontana, ovattata. E' una tragedia che non ci appartiene, quindi non appartiene totalmente nemmeno alla comunità, nonostante lo strazio della madre del ragazzo. E' come se quella morte fosse giunta già tempo addietro, al momento stesso del reclutamento nelle fila partigiane, quella scena sì, vista senza schermi e senza intermediazioni.

Il valore della regia non si vede solo dal taglio delle inquadrature o dalla capacità di dirigere gli attori, ma anche da quello che si mostra e da come lo si mostra.
Invia una mail all'autore del commento LukeMC67  27/02/2010 12:18:44Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Non sarei così sicuro che lo sguardo di Martina sia lo sguardo "della Comunità", semmai è lo sguardo innocente di quella parte di Comunità che pensa già al come uscirne, all'"Uomo che verrà", per l'appunto. E' quella parte che non vuol rinunciare ai propri princìpi e che non accetta di lasciarsi travolgere dal fango nonostante il fango piova ovunque attraverso la violenza inaudita della guerra. Dunque la sequenza da te citata mi sembra perfettamente in linea con la coerenza stilistica delle scelte del regista.
strange_river  25/02/2010 21:06:06Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Caro Gerardo, nemmeno io voglio insistere, tanto più che le tue argomentazioni sono molto forti e appassionate :) oltre che competenti.
Mi ha colpito il tuo commento in quanto sono sempre stata abbastanza sensibile (o almeno mi pare di esserlo) a questo argomento e non solo mi inorridisce il revisionismo di certe posizioni, ma solitamente anche storco il naso quando viene rappresentato banalmente o con clichè.
Siccome qui ti è chiaro che non ho percepito nulla di tutto questo, (e non solo io, ma pure confrontandomi con persone che non sono affatto tenere da questo punto di vista), la tua lettura così decisa mi ha colpita.
L'elemento umanità è predominante (la dedica finale a chi subisce è chiara); nella scena che citi è difficile distinguere, nella morte, il partigiano dall'uomo.
gerardo  25/02/2010 01:20:39Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Care Strange e Patt, l'intento di Diritti di fare un film con un'angolazione "dal basso", non militante, che non riguardasse direttamente ed esplicitamente la Resistenza, mi è sempre stato chiaro e non è questo che m'infastidisce. L'analisi storica tout court non è l'interesse principale di questo film, d'accordo, ma per raccontare quel microcosmo contadino protagonista del film Diritti la fa eccome. Perché il realismo estremo del "ritratto" bucolico ha bisogno, per essere credibile, di un'analisi storica approfondita e rigorosa. Ma quello stesso rigore realistico Diritti non lo "concede", molto arbitrariamente, al racconto di ciò che egli pone al di fuori di quella comunità. E i partigiani ne vengono posti all'esterno. Lasciamo da parte per un momento il fango e l'infamia sui partigiani e il loro più o meno eroismo. Ciò che si evince dal film - in modo inequivocabile dalla scena dell'uccisione del tedesco - è l'estraneità dei partigiani al contesto morale e ideologico (e persino antropologico) dei contadini, al pari dei tedeschi. In quel momento essi sono sullo stesso piano. (Peraltro questo concetto viene ribadito anche nella scena in casa, quando il partigiano fa segnare sul foglio dei saldi le provviste che la famiglia dei protagonisti consegna loro. Vien detto espressamente che essi sono come i tedeschi che continuano a prendere e portar via risorse senza pagare).
Tedeschi e partigiani sono estranei alla comunità perché usano gli stessi codici della guerra e della violenza che quella gente umile è costretta atavicamente a subire. Ripeto, spero non ottusamente, che questa è una semplificazione molto discutibile. Non dico che bisogna essere militanti, ma di essere rigorosi sempre e con tutti gli elementi del racconto, ché il realismo non può essere parziale.
A me sembra che si confonda l'estraneità (alla guerra) con l'innocenza. Il concetto di estraneità è giocato su due livelli che s'interscambiano: quello dell'estraneità dei contadini alla guerra e quello di tedeschi / partigiani alla comunità contadina. Entrambe le posizioni sono opinabili: la S.G.M. è stata una guerra totale che ha coinvolto a vari livelli anche le popolazioni civili, per tanto non si può parlare di estraneità. Se la guerra entra in casa tua, anche contro la tua volontà, non puoi più esserne estraneo. Questo non significa che tutti i non combattenti fossero schierati, o perlomeno che lo fossero esplicitamente, da una parte o dall'altra. La famiglia di Martina, nel film, non è estranea alla guerra, non fosse altro perché ne subisce la violenza, in tutti i modi. E non è nemmeno culturalmente diversa dai partigiani che sente distanti. Se si fosse mostrata la contiguità/affinità/compartecipazione morale dei contadini coi partigiani sarebbero stati/sembrati (i primi) forse meno innocenti di quanto appaiono nel film?
Invia una mail all'autore del commento kowalsky  23/02/2010 14:13:56Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Neanch'io sono d'accordo e comunque è molto più vero e toccante il film di diritti che quello (passo falso diciamolo) di Spike Lee che pretende di raccontare una storia che non gli appartiene (su un'altra tragedia italiana della guerra). C'è poi tutta l'essenza di martina, il compìto per la scuola, quello che vede e "sente" non è davvero la solìta guerra vista con gli occhi di un/a bambino/a (tipo Impero del sole di Spielberg)
patt  24/02/2010 00:41:10Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Che commento bello e sviscerato Ger. Anch'io comprendo bene l'angolazione della tua analisi, come diceva strange, ma credo che questo imbarazzo di cui parli, e che appunto mi risuona, appartiene più alla "sensibilità" storica dello spettatore, che all'intento di chiedere scusa alla storia, nell'innocenza non vedo questa pretesa, ma più una sottilineatura della non consapevolezza della guerra. (che si evince anche da "aneddoti" sentiti dai vecchi)
(non sono sicura di essermi capita (gh), ma ti volevo anche salutare, :)
gerardo  25/02/2010 01:21:40Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Grazie Patt, pciù ;-)
Invia una mail all'autore del commento LukeMC67  27/02/2010 12:14:31Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Non vorrei apparire "ecumenico", ma il valore del film sta proprio nel riuscire a suscitare tante e tali domande, nel costringere a interrogarsi e a confrontarsi. Magari tutto il cinema italiano (e non) riuscisse in questo intento!! Oggi non ci troveremmo nel degrado sociale nel quale siamo.