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PALOMBELLA ROSSA regia di Nanni Moretti

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kafka62     8 / 10  10/05/2018 11:53:18Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Quando ha scritto "Palombella rossa", a Nanni Moretti non devono essere sfuggite le numerose affinità che legano il suo film al capolavoro di Federico Fellini, "Otto e mezzo". Affinità non solo tematiche e stilistiche (che già erano presenti, ad esempio, sia pure ad un livello più generico e meno mediato, in "Sogni d'oro"), ma perfino diegetiche. Non credo che sia casuale il fatto che ambedue i film inizino con il protagonista rinchiuso in un'automobile e si concludano all'insegna di un'armonia utopistica e "artificiale" (davanti a un'impalcatura che è, per Fellini, set di un film che forse non si farà mai, e, per Moretti, luogo dove far sorgere un "sole dell'avvenire" di cartapesta). In entrambe le pellicole, poi, due ambienti acquatici (le terme e la piscina) sono deputati alla guarigione del protagonista (rispettivamente dall'esaurimento nervoso e dall'amnesia) e alla chiamata a raccolta di tutti i personaggi della sua vita. Comune ai due film è inoltre il loro substrato onirico. Non mi riferisco tanto al frequente ricorso di Moretti al sogno (che pure in "Palombella rossa" è importante e in un caso – Michele adulto che sogna Michele bambino che sogna di camminare in strada con le pantofole – è addirittura configurabile come "sogno di secondo grado", come nel Buñuel de "Il fascino discreto della borghesia"), quanto al fatto che tutta la pellicola è sospesa in un'atmosfera allucinata e irreale, di sogno appunto.
Ai meccanismi dell'attività onirica rimanda il complesso impianto spazio-temporale di "Palombella rossa". Anzitutto, il tempo, inteso come successione cronologicamente ordinata di istanti, non esiste più. La piscina in cui si gioca la partita costituisce infatti una dimensione "altra" in cui il tempo si allunga, si contrae, si accelera e si rallenta. Non è solo una questione di carattere tecnico o narrativo (l'uso del ralenti, ad esempio, o dell'ellissi), ma una questione sostanziale. La partita perde infatti ogni aggancio con la sua durata canonica e si protrae magicamente fino a notte inoltrata. Tutto è arbitrario, tutto può succedere, anche che sul più bello i giocatori abbandonino il campo per andare ad assistere, davanti al televisore, alla scena finale de "Il dottor Zivago". E tutto ciò, si badi bene, "naturalmente", senza che questo venga mai visto come una alterazione, una violazione della norma. Accade in fondo qualcosa di simile al meccanismo con cui il soggetto dormiente, allentando progressivamente i freni inibitori della propria razionalità, si inoltra per mezzo del sogno nel territorio dell'inconscio. Il tempo della partita praticamente non compare mai, se non a scandire gli ultimi fatidici secondi. Paradossalmente, però, questo scampolo di incontro è quello destinato a durare più degli altri (da solo occupa circa un sesto dell'intero film), in una sorta di parossistico prolungamento della tensione emotiva. La sequenza è memorabile: dapprima i due falsi rigori e la testata dell'avversario, quindi la scena già citata de "Il dottor Zivago", il ricordo della Tribuna Politica, e infine la canzone di Battiato, fanno sì che Moretti-Michele procrastini masochisticamente fino al limite dell'umana sopportabilità l'agognato orgasmo del gol, per scoprirsi al termine dolorosamente impotente (cioè incapace di segnare).
Se in "Palombella rossa" il tempo è arbitrario, lo spazio risulta altrettanto incongruo. Come in un sogno, Michele può essere dappertutto, egli sembra possedere il dono dell'ubiquità: noi vediamo, ad esempio, Michele seduto in panchina, durante un'azione di gioco che porta la squadra avversaria al gol; quando la macchina da presa inquadra il pubblico esultante, ci accorgiamo con sorpresa che, sulla terrazza che sovrasta gli spalti, c'è ancora lui, Michele, che cammina pensosamente avanti e indietro. Lo spazio del film si compone di più livelli: quello dove si gioca la partita e quello in cui, magari a pochissimi metri di distanza, è possibile estraniarsi completamente, vuoi per un'intervista televisiva, vuoi per una conversazione con la figlia od una rievocazione dell'infanzia. Si tratta di uno spazio che, pur nel realismo degli elementi oggettivi (una piscina anni '50, con i muri dalla vernice celestina, le gradinate di cemento, una veranda e un bar), appare fondamentalmente indeterminato, indefinito. A tratti sembra anzi un luogo prevalentemente psichico (come l'Overlook Hotel di Kubrick o la Tana kafkiana), del tutto incapace di fare da argine ai mostri generati dall'inconscio. Dai suoi confini slabbrati irrompono incessantemente personaggi indesiderati (i due ossessivi, il sindacalista, il cattolico), che sembrano sapere su Michele più cose di quante lui stesso ne conosca (come i personaggi de "Il processo" di Kafka nei confronti di Josef K.), che gli si rivolgono familiari e insinuanti, arroganti e supponenti, che si ostinano a tirarlo dalla loro parte e che, per la loro natura, assomigliano a fantasmi della memoria, a rimorsi, a complessi di colpa, a materializzazioni di paure vanamente rimosse nel passato. Ad essi è impossibile sfuggire, ed è altrettanto inutile cercare di controllarli e dirigerli (i due ossessivi, ad esempio, implorano Michele di parlar loro, ma quando Michele tenta di aprire bocca, quelli non gli lasciano dire nulla).
D'altro canto, se è innegabile che l'acqua appare come un luogo protettivo, un elemento risarcitorio, una sorta di liquido amniotico in grado di dare a Michele alcuni dei pochi momenti di appagamento, è altrettanto vero che la piscina è il luogo della solitudine e della sconfitta. Michele, intellettuale-militante in crisi che vorrebbe ripartire da zero, vede infatti svanire nella piscina l'utopia che ha accarezzato con feroce determinazione. L'acqua è, soprattutto, l'elemento che fa sentire la fatica di dire certe cose (agli attori, costretti a recitare in modo inusuale e improbo, e a Michele, che nell'acqua si arrovella inutilmente cercando di dare risposta ai suoi interrogativi): magistrale, in questo senso, è la lunga tirata di Michele contro il linguaggio scritto, girata quasi in un unico, difficilissimo (per l'interprete) piano sequenza. L'acqua è infine il luogo dell'incomunicabilità per eccellenza, lo spazio in cui le domande ("Perché tutta questa paura di noi?") o le preghiere ("E non hai pietà tu di me?") cadono, inascoltate, nel vuoto.
Tempo e spazio creano, come si è visto, un contesto di sublime irrealtà, in cui ambiente, azioni e personaggi sono spesso immotivati o incoerenti. Che dire, ad esempio, della veranda-studio che sovrasta la piscina e che serve a Valentina, la figlia di Michele, per prepararsi agli esami? E delle innumerevoli contraddizioni che popolano il film? Non può sicuramente sfuggire il fatto che la partita inizi di giorno, a spalti quasi vuoti, e ad un tratto (non gradualmente, ma proprio così, di colpo) ci si trovi in piena notte, con la tribuna gremita di tifosi. Si tratta, è ovvio, di contraddizioni volute dall'autore, che hanno (lo dico a costo di ripetermi) lo scopo di conferire al film la magica libertà del sogno e dell'esperienza psichica. Allo stesso tempo, però, Moretti dirige la pellicola con un'attenzione estrema per gli aspetti realistici. Sfruttando il suo passato di pallanuotista di discreto livello e facendo ricorso a veri giocatori, il regista ritrae la pallanuoto in maniera perfettamente credibile, evitando tanto le fastidiose falsificazioni di tanti film pseudo-sportivi (in cui il protagonista – automobilista, pugile o fantino che sia – finisce sempre per apparire come una appendice posticcia dell'ambiente sportivo autentico) quanto i cliché delle riprese televisive (fatte soprattutto di campi lunghi e di inquadrature indifferenziate). La cosa più importante è però un'altra: la partita, pur non essendo il perno del film, non è neppure un puro e semplice pretesto narrativo, accantonabile con noncuranza nel momento in cui l'intenzione metaforica del regista ha finalmente modo di dispiegarsi. "Palombella rossa" è un film che parla della politica, del linguaggio contemporaneo, della memoria, della incomunicabilità e di tante altre cose ancora, ma è anche un film in cui due squadre si affrontano per vincere il campionato, e questo scontro è condotto con un uso sapiente della suspense (come finirà la partita?), fino al fatidico rigore finale. Non solo, ma in un film frammentato, discontinuo, fatto di cesure e salti temporali, di centinaia di schegge impazzite, la partita di pallanuoto è ciò che permette di tenere unito il tutto, l'intimo elemento di coesione. E' peraltro stupefacente come Moretti, anche laddove il film prende altre direzioni, non perda mai di vista la verosimiglianza. Quando la macchina da presa, in una delle numerose divagazioni extra-agonistiche del film, inquadra il bordo-vasca, spesso nel campo visivo continuano a entrare frammenti di gioco, quasi a voler ricordarci che la gara sta proseguendo; e quando, fuori della piscina, Michele (polo principale dell'azione) inveisce contro la giornalista per avere usato nel suo servizio espressioni sbagliate, a pochi metri da lui l'allenatore (polo secondario) continua a sbraitare verso la vasca. Insomma, il massimo del surrealismo si accompagna al massimo di realismo, come solo nelle opere dei grandi artisti è dato di vedere.
Questo atteggiamento, solo apparentemente contraddittorio, rende plausibile una lettura del film articolata su più livelli. Prendiamo, per esempio, la canzone di Battiato che Michele ricorda, nell'ultimo, decisivo flash mnemonico, di aver cantato alla Tribuna Politica e che il pubblico intona con lui in piscina. Ebbene, è indubbio che le parole del cantautore ("Dovrei cambiare l'oggetto dei miei desideri, non accontentarmi di piccole gioie quotidiane, fare come un eremita che rinuncia a sé") siano da prendere alla lettera. "Palombella rossa" è un film contro la volgarità, il cinismo, l'indifferenza, e la canzone di Battiato, con il suo testo "impegnato", traduce tutto questo in un inno facilmente comprensibile dal pubblico. Così, quando Michele canta "questo secolo ormai alla fine, saturo di parassiti senza dignità", egli non fa che esprimere il suo savonarolistico disprezzo per il mondo contemporaneo. Contemporaneamente, però, la canzone cantata all'unisono dal pubblico (che diventa una cosa sola con Michele) crea una atmosfera trasognata e incantata: cala la violenta tensione agonistica, viene messo a tacere lo spirito di squadra, si forma una magica armonia in cui tutti si sentono reciprocamente affratellati. Ecco il secondo livello di lettura: la canzone non è solo un messaggio, più o meno esplicito, lanciato al pubblico, ma esprime simbolicamente la speranza che il mondo possa andare, una volta tanto, secondo i nostri desideri, anche se tutto ciò è un'utopia. C'è infine un terzo livello sul quale agisce la canzonetta, livello che si può definire strutturale. La canzone, cioè, si inserisce come corpo estraneo nella struttura del film, apportandovi una componente straniante ed incongrua. Non ci si aspetterebbe mai che, in un'intervista pubblica, il funzionario di partito si metta, con un'espressione seria e concentrata, a cantare, o che la partita venga interrotta da un simile intermezzo extra-agonistico. Ma questo stravolgimento è l'essenza stessa di un film che non intende stare alle regole e rispettare i canoni cinematografici tradizionali, che spiazza e disorienta in continuazione.
Lettera, simbolo, struttura: "Palombella rossa" gira incessantemente intorno a questi tre cardini. Come tutti i film morettiani, "Palombella rossa" è anzitutto riconoscibilissimo e comprensibilissimo ancorché ci si voglia limitare all'assorbimento meramente testuale e diegetico: non c'è nulla che impedisca a chi lo voglia di appassionarsi all'andamento della partita oppure di ridere di Michele che prende a schiaffi la giornalista. Moretti non nega il piacere "popolare" di una empatia istintiva e immediata, fatta anche di battute destinate a rimanere scolpite nell'immaginario collettivo (basti pensare al famoso "facciamoci del male", diventato ben presto un modo di dire abbastanza diffuso tra i giovani). E' chiaro tuttavia che il film è anche (e soprattutto) costituito dalla sua componente extratestuale, giacché "Palombella rossa" ha una evidente (seppure non facilmente decifrabile) connotazione allegorica. La partita di pallanuoto è infatti qualcosa di più di un incontro sportivo, è una metafora della vita e del mondo di oggi. Questo livello plurimo di lettura influenza anche la qualità del simbolismo, che nel film di Moretti è eccelsa. Recentemente ho avuto modo di vedere un deludente film di Fernando Solanas, "Il viaggio". In esso i simboli abbondano, ma sono quasi tutti pedissequi e grevi: per far vedere che l'Argentina sta affondando, Solanas non trova di meglio che inventare una inondazione che allaga le strade di Buenos Aires; per dimostrare che i paesi latino-americani sono asserviti all'imperialismo statunitense, escogita un congresso dei "Paesi Inginocchiati", dove i vari membri parlano e si muovono stando proprio così, in ginocchio. In questo (e in moltissimi altri) film il simbolismo non si innalza mai al di là di una soglia di pedestre didascalismo, in una sorta di scala 1:1 tra situazione simboleggiata e simbolo. In Moretti ciò non avviene: affine per molti versi a "La tana" di Kafka, la piscina di "Palombella rossa" è sì emblema dei grovigli della psiche umana, ma anche luogo concreto (al punto che si possono afferrare persino gli odori) in cui agiscono personaggi straordinariamente vivi e si succedono situazioni narrative in sé perfettamente concluse e autonome. Si prenda ad esempio la scena del rigore: i dubbi che portano Michele a sbagliare il tiro (e che vengono splendidamente espressi con il ralenti ed il monologo interiore, ad indicare la diversa velocità del pensiero rispetto ai movimenti del corpo) simboleggiano sicuramente le autodistruttive esitazioni di un partito che, a furia di non saper trovare una precisa e coerente collocazione storica e politica, ha finito per perdere la propria identità, ma nel contempo sono i dubbi istintivi che attanagliano qualsiasi giocatore che si trovi nella condizione di dover tirare un rigore (tiro a destra oppure a sinistra?), e perciò sono perfettamente assimilati alla situazione scenica, possono essere cioè compresi anche senza la mediazione della decifrazione crittografica. Per finire, questa dimensione extratestuale interagisce con la struttura filmica, diventa cioè modo di essere del film, al punto da fissare le sue stesse coordinate stilistiche (la surrealtà, la comicità, l'ambiguità spazio-temporale). Così, l'acqua alta che, ad un certo punto, impedisce a Michele di avanzare può essere facilmente spiegata con una specie di fobia infantile riemersa attraverso i ricordi; simboleggia, ad un secondo livello (ancora una volta il riferimento a Buñuel, e in particolare a "L'angelo sterminatore", è d'obbligo), la difficoltà di un partito di avanzare e la sua paura di contaminarsi andando verso l'infido "centro"; epperò è anche, per la sua incongruità (la paura dell'acqua alta per un giocatore di pallanuoto non è razionalmente ammissibile), una situazione comica, che rompe in una risata, attraverso la creazione di un sorprendente anticlimax, il ritmo della partita (un analogo ragionamento può essere fatto per molte altre sequenze, da quella de "Il dottor Zivago" a quella dell'intervista).
A questo punto, il passaggio dal cinema al meta-cinema diventa quasi ovvio. L'iniziale riferimento a "Otto e mezzo" del resto non poteva portare che a questo, a considerare cioè il film come una riflessione dell'autore sui meccanismi creativi della sua arte, sul suo modo di fare il cinema e di rapportarsi al cinema. Nelle scene in cui l'amico rievoca alla giornalista l'episodio giovanile della cattura del fascista, Michele sembra non a caso un regista posto di fronte a un'inquadratura venuta male ("Che scena orribile!"). Del resto, ho scritto più sopra che il tempo, in "Palombella rossa", si allunga e si contrae, si accelera e si rallenta, dando al film l'eterea dimensione del sogno: e cos'è in fondo il cinema se non un sogno molto particolare? Scriveva Luis Buñuel (ancora lui!) nel 1954: "Il meccanismo creatore delle immagini cinematografiche è quello che, fra tutti i mezzi di espressione umana, richiama meglio il lavoro dello spirito durante il sonno. Jacques Brunius ha fatto osservare che il buio che invade a poco a poco la sala equivale all'azione di chiudere gli occhi. E' allora che comincia sullo schermo e al fondo dell'uomo l'incursione notturna dell'inconscio; le immagini come nel sonno compaiono e scompaiono, il tempo e lo spazio cronologico e i valori relativi di durata non corrispondono più alla realtà; l'azione ciclica deve compiersi in alcuni minuti o in più secoli; i movimenti accelerano i ritardi". Se il cinema è soprattutto, come sostiene Buñuel, organizzatore di sogni, "Palombella rossa" è l'espressione all'ennesima potenza di questo cinema. Nello stesso tempo, in "Palombella rossa", è tutto il cinema di Moretti ad essere rimesso in gioco. Nel film compaiono infatti diversi spezzoni del primo cortometraggio del regista, un super 8 girato nel 1973 ("La sconfitta"). E', questo, un esperimento che già qualcuno prima di lui aveva tentato (Bergman, per fare un solo esempio, aveva utilizzato in "Passione" alcuni brani de "La vergogna"). Tuttavia in "Palombella rossa", oltre ad assumere una valenza quasi autobiografica, esso sembra esprimere la paura del regista di perdere la genuinità e la sincerità che avevano caratterizzato gli esordi con la cinepresa a passo ridotto. La ricerca da parte di Michele della propria identità può essere in fondo interpretata come la ricerca da parte di Moretti, dopo i successi di "Bianca" e di "La messa è finita", di nuovi territori cinematografici ancora da esplorare. Il pubblico, che col tempo ha finito per identificare il cinema di Nanni Moretti con un ben preciso cliché ideologico-generazionale, si aspetta ogni volta da lui la riproposta delle sue idiosincrasie, delle sue giaculatorie, del suo personaggio scarsamente integrato nella società in cui vive. Moretti non può sfuggire a tutto ciò, così come Michele non può sfuggire ai due ossessivi che lo perseguitano assillandolo coi dolci che lui preferisce. E allora, alla luce di questa situazione "freudiana", la "palombella" non può essere proprio il simbolo di un modo di fare il cinema che, come il tiro a parabola che scavalca il portiere, è sempre uguale a se stesso, eppure ogni volta è abbastanza diverso da riuscire a sorprendere?
Essere uguali, ma al tempo stesso essere diversi: questo sembra essere l'assillo non solo di Moretti-regista, ma anche di Michele-deputato comunista. "Palombella rossa" è infatti un film a suo modo politico, che affronta in maniera quasi profetica (di lì a poco il PCI cesserà di esistere, trasformandosi in PDS) la crisi profonda di un partito e di un'ideologia. Moretti è ben attento ad evitare gli stereotipi del filone (peraltro scarsamente frequentato in Italia negli ultimi tempi) del cinema politico. "Non volevo fare un film realistico sulla crisi del solito militante comunista, i soliti dibattiti in una sezione lontana, …, la solita telefonata triste alla solita moglie solitamente in crisi (perché le difficoltà politiche vanno sempre insieme nei soliti film alle difficoltà familiari), i soliti discorsi con i soliti figli che non ti capiscono e che tu non capisci… Insomma, non mi andava di fare il solito film di sinistra sulle solite contraddizioni di un comunista". Come si è visto più sopra, Moretti sceglie la strada dell'astrazione e dell'allegoria. La perdita della memoria da parte di Michele viene in tal modo caricata di un significato simbolico e ricollegata ad altre sintomatiche amnesie del cinema morettiano, da quella di "Io sono un autarchico" (in cui ci si chiede che senso avessero le manifestazioni per l'Irlanda) a quella del protagonista di "Bianca" (a un certo punto andavamo tutti, era d'estate, andavamo tutti in Portogallo. Non mi ricordo più perché… Si, per andare a vedere un colonnello, si chiamava Otelo de Carvalho. Chi era?"). In "Palombella rossa" l'amnesia spezza il rapporto con il passato e lascia il protagonista senza più certezze né identità. "Dio è morto, Karl Marx è morto, e neppure io mi sento troppo bene" è una famosa battuta di Woody Allen, che si adatta perfettamente al personaggio di Michele. Quando egli esclama "Io sono comunista! Ecco chi sono, sono un comunista!", l'effetto è irresistibilmente comico, perché questa scoperta contiene in sé, direi quasi implicitamente, un che di anacronistico. A partire da questa singolare "auto-agnizione", tutto il film appare come un continuo tentativo di rimettere insieme i frammenti sparsi di una esistenza e di una militanza politica, al punto che l'amnesia assurge a essenza stessa della discontinuità strutturale del film.
Questo continuo arrovellarsi e scavare nel passato (prossimo e remoto) non è senza significato, perché il comunismo è una vera e propria religione laica, e come tutte le religioni vive di un rapporto "liturgico" con il passato, un vero e proprio cordone ombelicale con la tradizione e l'ortodossia dei padri. Smarrire questo trait d'union vuol dire anche perdere del tutto quella tensione ideale e quella coscienza di classe che, in anni ormai lontani, faceva sembrare davvero prossimo l'avvento di una nuova era, più libera e più giusta. Privato di queste radici, Michele vaga intorno alla piscina, completamente estraniato dalla partita, alla ricerca di una risposta plausibile al dilemma, più volte ripetuto, "cosa vuol dire essere comunisti oggi?". Intorno a lui una schiera di presenze minacciose ed enigmatiche lo tormenta senza sosta, amplificando i suoi dubbi e le sue contraddizioni: il sindacalista, che lo investe con una raffica di "alternative democratiche", "riforme di struttura" e altri assiomi che riempiono la bocca ma non dicono nulla; il ciellino, che si ostina ad assimilarlo a lui; gli ossessivi, che gli agitano davanti un ideale di terroristica purezza e moralità. A queste presenze e a chi, come l'arbitro o l'intervistatore della Tribuna Politica, gli rinfaccia l'inutilità del suo partito, Michele non sa opporre altro che una impacciata retorica e un sempre meno convinto dogmatismo. Persino i flash che fanno riaffiorare dall'oblio alcuni episodi del passato non servono a molto: la scena del fascista gli appare disgustosa ("Che scena orribile! Ma davvero è successo tutto questo?"), i suoi esordi in politica sono altrettanto pieni di interrogativi ("Non vedremo mai il comunismo?… Almeno un pezzetto della fase di transizione!… Sì, ma siamo seri, ma che ci frega a noi dei desideri delle masse?") e gli valgono un ceffone da un compagno di partito.
La raffica di "Ti ricordi? Ti ricordi? Ti ricordi?" che l'amico di un tempo indirizza a Michele fa addirittura sorgere il dubbio che quest'ultimo, vittima come il Funes di Borges di una memoria divenuta troppo ingombrante, abbia inconsciamente desiderato di azzerare il proprio passato, per cercare di sfuggire al fallimento ideologico di una intera generazione e avere in tal modo la possibilità di ricominciare da capo. Ma – sembra chiedersi Moretti – c'è ancora bisogno di comunismo? Il regista romano è troppo intelligente per non porsi questo interrogativo con autoironia. C'è una bellissima sequenza in cui Michele, durante una fase di gioco sotto la porta della squadra avversaria, rivendica tetragonamente il diritto di cittadinanza del comunismo nella società contemporanea e stigmatizza l'ideologia volgare e falsa del capitalismo, mentre l'implacabile Budavari lo affonda ogni volta che gli riesce di toccare palla. La fatica del gioco è qui associata alla fatica di sostenere con coerenza una posizione politica che, nell'era dei consumi di massa e della trasformazione del proletariato in piccola borghesia, appare sempre più fuori moda e prevedibile, come la palombella che conclude l'azione, parata facilmente dal portiere avversario. L'autoironia del film sta nel fatto che Michele, pur dimostrandosi insofferente verso gli schematismi e la retorica in cui si è rinchiusa la sinistra, non è egli stesso capace di liberarsi di quell'antiquato armamentario ideologico, se non nei termini del patetico ricorso a una sterile utopia, come dimostra la sequenza finale. Michele non solo non sa replicare ai suoi avversari, ma, e questo è l'emblema della sua personale sconfitta (in fondo il film si potrebbe intitolare "La sconfitta 2"), parla addirittura come loro.
Per Moretti la crisi politica dei nostri giorni è innanzitutto (senza che ciò voglia apparire riduttivo) una crisi di linguaggio. "Palombella rossa" può anzi essere definito, nella sua interezza, una lunga e arrabbiata invettiva contro la corruzione mass-mediologica, politica e perfino sportiva della parola. Come un cavaliere templare investito della sacra missione di liberare la lingua italiana (scritta e parlata) dall'imbastardimento e dalla degenerazione che minano la sua originaria purezza, Moretti ingaggia, nevroticamente e maniacalmente (come più si confà al suo personaggio), una piccola, personalissima Guerra Santa. Per il regista romano il linguaggio è un fatto addirittura esistenziale: "Chi parla male, pensa male, e vive male. Bisogna trovare le parole giuste, le parole sono importanti"; e alla giornalista che lo investe con una improvvida sequela di modi di dire alla moda, di termini come kitsch, cheap, trend negativo, Michele non può trattenersi dal rifilare due sonori schiaffoni. La critica di Moretti non è però, come potrebbe apparire a prima vista, una critica alla "americanizzazione" del vocabolario, quanto a un uso gergale del linguaggio, a una sua settarizzazione che è anche becera chiusura degli appartenenti al gruppo nei confronti di tutti gli altri, e quindi simbolo della frammentazione sociale e dell'incomunicabilità. Di fronte a questa situazione, Moretti-Michele reagisce in maniera scomposta ed esasperata, prendendo letteralmente a pugni chi lo circonda. Ma tutto in "Palombella rossa" sembra congiurare contro di lui: il film è infatti il trionfo della logorrea, del vaniloquio e della chiacchiera. Le torrenziali verbosità che tutti i personaggi (dall'allenatore al sindacalista, dall'intervistatrice ai due ossessivi) riversano su Michele non esprimono concetti, non lanciano messaggi, non servono a spiegare, ma sono espressioni alienate e fini a se stesse, semplici emissioni vocali iterate fino al punto di perdere ogni aggancio con il loro referente semantico, in qualche modo reificate e ridotte a mera oggettualità.
La prospettiva di Michele, quindi, non è più solo quella di un moralista maniaco della purezza, ma di chi da una parte si rende amaramente conto della totale inadeguatezza del linguaggio a tradurre la complessità del reale, dall'altra avverte il pericolo insito nella volgarità dei mass media (casse di risonanza tanto onnipotenti quanto vuote del mondo contemporaneo) e nel loro uso, cinico e spregiudicato, della parola scritta. "Noi dobbiamo lottare contro il giornalismo, contro le parole sbagliate… Io odio la parola scritta, la vita di un uomo viene sporcata per sempre se qualcuno ne parla in un settimanale". Ma a essere messo in discussione è perfino il processo logico con cui i pensieri vengono tradotti in parole, l'atto stesso cioè con cui i pensieri vengono esteriorizzati, diventando oggetto di comunicazione: "Se io traduco quello che ho in testa in una formula semplice, allora lì fallisco. In testa ci stanno troppi pensieri". Ciò non è peraltro in contrasto con la crescente tendenza moderna a teorizzare su tutto, perché nel tentativo di razionalizzare si finisce in fondo per schematizzare, semplificare, convertire la poliedrica e multiforme realtà in bignamini buoni per ogni uso (vedi il manualetto sul PCI della giornalista, gli schemi tattici dell'allenatore e i grafici che l'assistente mette sotto il naso a Michele nel corso dell'intervista televisiva). Tanto, a giustificare ogni cosa può essere chiamato in causa quell'odioso luogo comune che è la "professionalità". "La mia professionalità mi impone… La mia professionalità me lo impedirebbe… nonostante la mia professionalità", quante volte si sentono in "Palombella rossa" simili espressioni, pronunciate dall'arbitro, dalla giornalista, dal cattolico, perfino dal barista. "Tecnica, professionalità e mestiere sono parole che non capisco. In Italia, quando si vuole salvare qualcuno, si dice sempre che è molto professionale. Che significa? In campo cinematografico, mi sembra, spesso significa credere che il cinema sia il luogo dove muovere a casaccio la macchina da presa", afferma causticamente Moretti in un'intervista. E come dargli torto?
Qual è quindi per Nanni Moretti la possibile via d'uscita? Paradossalmente, quella che più assomiglia a una risposta al chiasso insopportabile e al cicaleccio indifferenziato del mondo moderno è la curiosa filosofia propugnata dal "santone" di Simone il cattolico, per il quale la salvezza sta nel silenzio: "Il silenzio è molto difficile, quasi impossibile, è un gol, ma dopo… c'è l'armonia". Michele è sedotto da questa forma di catarsi spirituale, ma la censura impietosamente ironica di Moretti-regista non risparmia niente e nessuno: la "silenziosofia" del teologo viene mostrata per quello che è, vale a dire una ridicola cabala, un esoterismo da baraccone, una numerologia tanto fascinosa quanto ingannatrice ("Questo succede 163 volte nella vita – dice il teologo a Michele – dopo si muore… Ogni gol un silenzio, ogni silenzio un gol… 163 volte nella vita… oggi ne bastano tre o quattro"). Essa è comunque sintomatica di quella che è la condizione dominante del film, la solitudine. Il protagonista dei film di Moretti è sempre stato un solitario, un diverso, un non integrato, ma in "Palombella rossa" questo status assurge a livelli di vera e propria tragedia esistenziale. Anche se il pallanuotista-deputato Michele è il primo personaggio morettiano ad essere nello stesso film sia figlio che padre, e anche se per la prima volta non è lui a "rompere le scatole" agli altri, ma al contrario viene dagli altri incalzato, blandito e assillato, egli è totalmente, irrevocabilmente solo, e il gran parlare che fa per l'intera durata del film non sono altro che monologhi, soliloqui, invocazioni senza destinatario. C'è in questo atteggiamento, ovviamente, un risvolto comico (mentre Michele, testardamente, sproloquia in piscina, intorno a lui il gioco continua del tutto indifferente alle sue parole), ma è pure presente un sottofondo di tristezza e di consapevolezza "in negativo", e addirittura – cosa per Moretti del tutto insolita – una punta di autocommiserazione ("Ma quanti anni sono che parlo da solo? E non hai pietà tu di me?"). Ad accrescere la solitudine di Michele c'è poi il fatto che le persone che lo circondano sono stereotipi, figure astratte, fantasmi svuotati di ogni individualità, semplici simboli di un ruolo sociale (l'allenatore, la giornalista, il sindacalista, il cattolico). Come tali non possono essere i terminali di una qualche forma di comunicazione, ma contribuiscono solamente a mettere in risalto la solitudine di Michele (che, alle cervellotiche spiegazioni tecniche dell'allenatore, risponde con una esclamazione solo apparentemente fuori luogo: "Non mi parli mai di te, non mi parli mai delle cose importanti della tua vita, dei tuoi ricordi").
L'incomunicabilità è quindi uno dei punti di arrivo di "Palombella rossa": si tratta però di una incomunicabilità (e di una alienazione) che non ha nulla di antonioniano, ma si camuffa dietro le parvenze di una falsa comunicazione (il linguaggio corrotto dei mass media), di una distorta idea del sociale (le rivendicazioni dei due ossessivi e del sindacalista) e, soprattutto, deve fare i conti con la schizofrenica personalità del protagonista. Michele da una parte vuole essere amato (come confessa alla figlia), dall'altra respinge violentemente la mano tesa del cattolico ("Michele, io sono contento che tu esisti, tu sei contento che io esista?". "No! No!"), da un lato si comporta con narcisistico egocentrismo o con aristocratica selvatichezza, dall'altro desidera ardentemente far parte di un gruppo (sia esso il partito o la squadra) e si lascia coinvolgere da interessi nazional-popolari (dalla politica a favore delle masse e della classe operaia fino al morboso interessamento per un film commerciale come "Il dottor Zivago"). Insomma, la dialettica tra conformismo e individualismo è in "Palombella rossa" particolarmente complessa. L'affermazione, più volte ripetuta, "noi siamo uguali agli altri, ma siamo diversi" è, prima ancora che una similitudine politica, il simbolo di una lacerante dissociazione psichica, emotiva ed esistenziale. Michele non si adatta a nessun ruolo e reagisce paranoicamente sia nei confronti di chi tende ad isolarlo sia nei confronti di chi si adopra per assimilarlo e omologarlo ("Tu sei come noi, noi la pensiamo allo stesso modo", dice ancora Simone a Michele). Se però all'inizio del film Michele appare completamente estraniato dal contesto (il che genera stupendi effetti comici, specialmente nelle inquadrature che ritraggono l'allenatore e i compagni di squadra che urlano verso la piscina mentre lui guarda assente in direzione opposta, oppure in quella dove, sempre nel pieno dell'incontro, passeggia solitario a bordo vasca, rimuginando chissà cosa), nel prosieguo, con la stessa subitanea immediatezza con cui si passa dal giorno alla notte, egli inizia a prendere gusto alla partita (alla vita?), prega l'allenatore di essere mandato in acqua, segna, lotta e si addossa alla fine persino la responsabilità di tirare il rigore. Ma il progressivo coinvolgimento emotivo di Michele nella partita (o nel film trasmesso in televisione, al quale egli assiste addirittura alzando in aria il pugno chiuso) sortisce il solo effetto di accrescere, come vedremo fra poco, la disillusione finale.
Ad un certo momento del film, si verifica un piccolo ma fondamentale avvenimento. Un ragazzo della squadra di Michele accende il piccolo registratore portatile e le note di "I'm on fire" di Bruce Springsteen si propagano in tutto lo stadio: improvvisamente la partita cambia volto, gli ossessivi che stanno inveendo al microfono rimangono interdetti, gli avversari si intimoriscono, la squadra di Michele, concentrata come durante una messa, si fa forza, l'allenatore e "l'uomo fondamentale della sua vita" si strizzano l'occhio, la rimonta può finalmente aver luogo. Ah! – sembra dire Moretti – se la vita fosse come nelle canzoni! A chi di noi, ascoltando ad occhi chiusi le sue canzoni predilette, non è capitato almeno una volta nella vita di sentirsi in grado di dominare il mondo, di far innamorare di sé la donna dei propri sogni, di dimenticare i suoi limiti per sentirsi davvero valente, coraggioso e giusto? E allora, in questi magici momenti, in cui la forza ipnotica dell'illusione prende il sopravvento, è possibile perfino credere che un film che abbiamo già visto decine di volte possa finire, una volta tanto, secondo i nostri desideri. La scena che si svolge intorno al televisore del bar, dove stanno scorrendo le famose sequenze conclusive de "Il dottor Zivago", è meravigliosa: giocatori e tifosi, completamente dimentichi della partita, si lasciano catturare dal melodramma e, travolti dai buoni sentimenti e dalla simpatia verso i personaggi del film, si illudono per qualche minuto di poter deviare gli eventi narrati verso il lieto fine. Davanti al video è tutto un coro di "Voltati!", "Bussa!", "Fatelo scendere!", e, quando Zivago stramazza al suolo colpito da infarto mentre la donna amata si allontana dalla piazza senza essersi accorta di nulla, l'eterogeneo e improvvisato pubblico si lascia andare ad un "noooo!" di rabbia e di delusione. L'idea di poter intervenire sul mondo è destinata a fallire miseramente, a rimanere una pia illusione oppure a subire un doloroso disincanto (come si può vedere nello stridente passaggio dal clima quasi religioso creato dalla canzone di Battiato alla prosaica rozzezza dell'incitamento sportivo). "Palombella rossa" è quindi una crudele e impietosa demistificazione di ogni genere di utopia. Lo stesso comunismo è per Moretti nient'altro che una chimera, una chimera rassicurante e in qualche modo necessaria, ma pur sempre una chimera: difatti il "sole dell'avvenire" verso cui tutti tendono, nel finale, con un grottesco e teatrale trasporto ha la stessa illusorietà di un "finto" lieto fine cinematografico, e saranno gli occhi del bambino, non ancora guastati da patetici infingimenti, a riconoscere e a svelare agli altri, con uno sghignazzo, l'inganno.
Il massimo grado dell'illusione è costituito per Moretti dalla ricerca di un presunto ideale di felicità nel proprio passato, e più precisamente nell'infanzia. Anche il regista romano ha, come Proust, le proprie madeleine, e non solo in senso traslato: il primo flash back mostra Michele bambino con una fetta di dolce in mano, mentre nella sequenza dell'incubo egli ruba addirittura una intera torta a un vicino di casa più piccolo di lui; sono infine le "merendine della mamma" ad essere invocate da Michele adulto nei momenti in cui il contrasto con la realtà si fa più doloroso. Ma la regressione nell'infanzia assomiglia a ben vedere meno alla proustiana ricerca del tempo perduto (manca infatti in "Palombella rossa" la ricomposizione dei conflitti interiori in un ideale di perfezione al riparo dell'azione disgregatrice del tempo) che agli elegiaci ripiegamenti nel passato di Virginia Woolf, sia pure passati al vaglio di una disincantata ironia. Come per l'autrice di "Gita al faro", anche per Moretti il fascino della memoria non è mai disgiunto dalla malinconica consapevolezza che qualcosa è andato perduto per sempre, che è stato fallito, senza neppure rendersene conto, l'appuntamento decisivo con il destino. L'evocazione del passato, anziché dare un duraturo sollievo, si tramuta così in un singhiozzo straziante ("Le merendine di quando ero bambino non torneranno più!… E neppure i pomeriggi di maggio!… Mamma!"). Il fatto è che Moretti, anziché lavare (parafrasando Enquist) i suoi "serpenti della pioggia", ossia anziché accettare il passato nella sua dimensione prosaica e reale, lo idealizza instancabilmente, lo trasfigura, mitizzandolo come un Eden perduto che egli cerca in extremis di recuperare per mezzo di un ritorno all'infanzia non privo di connotati edipici (ciò si vede molto bene nel lontano ricordo della trasferta in Liguria, laddove in contrasto con le parole di Michele adulto – "In quel momento ero felice" – le immagini ci mostrano il bambino che barcolla sotto il peso di due enormi borse, giurando che quella sarà la sua prima e ultima trasferta).
Come si è visto, Moretti mostra contemporaneamente il bisogno di aprire criticamente (e antagonisticamente) gli occhi di fronte alla realtà e quello, antitetico, di illudersi che la realtà sia un prolungamento del proprio io, della propria volontà, dei propri desideri. La disillusione, cioè la presa di coscienza del divario tra aspettative e realtà (la quale opera su entrambi i piani: il fallimento della ideologia comunista da una parte, la scoperta che il passato è passato, e non tornerà più, dall'altra), fa ripiegare il film su un tono dolente e tragico, che ha nell'amaro sfogo di Michele nel dopopartita ("Mi aspettavo di più dalla vita. Di più e meglio.") il suo momento culminante. Il film oscilla così tra i due poli opposti della comicità e della tragedia. Ciò che, tra le altre cose, rende "Palombella rossa" un grande film è proprio la capacità di far accettare anche le situazioni più tragiche, attraverso il loro inserimento in un contesto incongruo che le rende ridicole o grottesche, alleggerendo in tal modo la crescente tensione drammatica. Basti pensare alla scena, tragicomica per eccellenza, in cui Michele non riesce più a nuotare perché ha paura dell'acqua alta al centro della piscina, mentre l'allenatore, i compagni e perfino gli spettatori cercano di tranquillizzarlo come se si trattasse di un bambino impaurito. Del bambino, peraltro, Michele conserva gli irrefrenabili impulsi ludici ("Posso farti il solletico ai piedi? – chiede insistentemente alla figlia – Otto colpi di testa?"), la maldestra goffaggine (vedi il modo in cui salta in acqua quando entra per la prima volta in squadra) e l'inermità (egli è completamente in balia degli altri e viene da loro continuamente assalito, sia fisicamente che verbalmente, finendo spesso addirittura sott'acqua), in palese contrasto con i ruoli di responsabilità che riveste nella vita (padre, dirigente di partito, uomo-squadra da cui dipende la vittoria del campionato). Ciò che rende così unici i personaggi di Moretti (non solo il Michele Apicella di "Palombella rossa", ma anche quelli di "Sogni d'oro", "Bianca" e "La messa è finita") è proprio questo dualismo insanabile tra immaturità ("Io non lo voglio superare il complesso di Edipo", dice non a caso il protagonista di "Sogni d'oro") e saggezza, tanto che il famoso moralismo morettiano viene fatto apparire (con una stupenda intuizione da parte del regista) più come il maniacale sfogo di uno psicotico che come un equilibrato e consapevole comportamento etico. Ma siccome i film di Moretti richiedono sempre un ribaltamento del loro senso apparente, ecco che il suo moralismo, schernito, irriso e ridicolizzato, si prende la rivincita ed emerge alla fine, immancabilmente, come l'unica arma legittima per confrontarsi e lottare contro il mondo che non va.
In quest'ottica, che possiamo definire del paradosso, "Palombella rossa" approda a conclusioni non lontane da quelle dei film precedenti (è sufficiente pensare all'anticonformistica esaltazione del conformismo in "Bianca"). Dei film precedenti "Palombella rossa" ripropone anche le numerose idiosincrasie e fissazioni: dalle canzonette (che abbiamo visto essere l'unico mezzo per uscire dalle sabbie mobili del linguaggio) alle scarpe (i contrasti con la figlia) e ai dolciumi (i cartelloni pubblicitari che galleggiano in piscina prima dell'inizio dell'incontro, i dolci che i due ossessivi recano in omaggio a Michele, le torte dei flash back infantili). Vi sono poi situazioni che si ripetono, rimandi (se non addirittura vere e proprie citazioni) a un cinema concepito fin dall'inizio come un universo chiuso e autosufficiente: l'insopportabile giornalista della Tribuna Politica assomiglia moltissimo al camaleontico critico cinematografico che compare nei dibattiti di "Sogni d'oro", il tuffo in acqua per liberarsi dell'ingombrante presenza del sindacalista ricorda analoghe "fughe" di "La messa è finita", mentre ritorna (diventando anzi tema principale) l'ossessione del linguaggio come sforzo inesausto e violento di convincimento e persuasione. Rispetto agli altri film, però, "Palombella rossa" si segnala per una qualità stilistica nettamente superiore. Il cinema di Nanni Moretti non si è mai distinto, ad essere sinceri, per i suoi aspetti tecnici (anche se bisogna riconoscergli il merito di aver sempre preso le distanze dall'approssimazione e dal dilettantismo caratterizzante gran parte del giovane cinema italiano), ma, vuoi per una effettiva maturazione registica, vuoi per il geniale apporto di collaboratori come Nicola Piovani e Giuseppe Lanci (rispettivamente al secondo e al primo film con Moretti), "Palombella rossa" risulta finalmente un'opera di grande suggestione formale. "Palombella rossa" non sarebbe sicuramente la stessa senza quella malinconica marcetta che ricorda il suono di un carillon e che evoca così nitidamente l'età perduta dell'infanzia, per non parlare del bel tema principale, che introduce un indistinto senso di suspense e un oscuro presentimento di qualcosa che deve di lì a poco accadere (e che contribuisce quindi a controbilanciare la naturale propensione del regista a distanziarsi emotivamente dalla narrazione, raffreddandola). L'illuminazione di Lanci, che è a mio avviso il miglior direttore della fotografia attualmente attivo in Italia, è poi fondamentale nel conferire al film il suo particolarissimo assetto figurativo, fatto di colori netti e brillanti in piscina e di barbagli liquescenti al di fuori di essa.
L'acqua è, ovviamente, l'elemento con il quale Moretti deve misurarsi in continuazione per vincere la sua difficile scommessa registica. In un film ambientato non solo nell'acqua, ma dentro l'acqua, e dove, senza il ricorso a trucchi e finzioni, la cinepresa marca strettamente gli attori-giocatori, i problemi pratici non devono essere stati di poco conto, a cominciare dalla recitazione in perenne lotta con la fatica fisica di stare a galla e nuotare per finire alla predisposizione di postazioni mobili e galleggianti di ripresa. Pur in mezzo a tutte queste difficoltà, Moretti è riuscito a dare una grande lezione di stile. Innanzi tutto, la sua macchina da presa non è più, come nei film precedenti, prevalentemente al servizio di un montaggio interno all'inquadratura (e quindi immobile, a riprendere personaggi che si muovono in funzione di essa), ma appare maggiormente creativa, tendente a plasmare lo spazio per conferirgli nuove connotazioni, naturalmente nei binari di quell'ambiguità spazio-temporale di cui ho parlato all'inizio: si veda la scena in cui la camera zooma lentamente verso Michele e la giornalista, entrambi sullo sfondo, fino a ribaltare l'iniziale gerarchia visiva (le azioni della partita passano gradualmente in secondo piano fino a scomparire), o quella in cui dalla panoramica della tribuna dove i tifosi festeggiano il gol della squadra locale si passa, senza stacchi e sempre in campo lungo, all'inquadratura di Michele che passeggia meditabondo sulla terrazza sovrastante. C'è in Moretti il costante tentativo (o preoccupazione che dir si voglia) di allontanarsi da una immediatezza naturalistica di stampo televisivo: si spiegano così le azioni di gioco al rallentatore (dove il ralenti è in un caso realizzato addirittura in macchina), le quali hanno sempre una funzione emotiva e mai meramente descrittiva e spettacolare (come avviene in TV quando si rivede un gol alla moviola), oppure le numerose sequenze che spezzano il sincronismo tra immagine e suono. Quando Michele, dopo avere schiaffeggiato la giornalista, urla alla donna tutto il suo disappunto, ci accorgiamo che le parole da lui gridate non corrispondono ai suoi movimenti labiali, in quanto questi ultimi sono rallentati al fine di enfatizzare al massimo la radicalità del gesto del protagonista; oppure, quando il fascista dice a Michele: "Sai qual è la differenza fra noi due?", noi vediamo la coppia parlare sullo sfondo ma non riusciamo ad ascoltare la risposta. Tutto si svolge all'insegna dell'antinaturalismo e dell'ambiguità, al punto che non mancano nel film sguardi rivolti direttamente in macchina dal protagonista o raccordi di montaggio a comprensione ritardata (dopo che Michele, espulso per fallo di reazione, esclama sul bordo della piscina: "Mi ricordo! Mi ricordo!", fa seguito quella che noi crediamo essere una reminiscenza come le altre, e invece, incongruamente con le aspettative ingenerate, si rivela, con il protagonista addormentato sulla panchina della sua squadra, un vero e proprio sogno). Altrove il regista mira ad allargare inaspettatamente i limiti (e il senso) dell'inquadratura di partenza, come quando la macchina da presa, partendo dal piano ravvicinato della mamma di Michele che asciuga la testa del bambino, si allarga fino a comprendere nel campo decine di altre mamme che fanno la stessa cosa con i loro bambini (la scena, stupenda, ricorda vagamente il piano sequenza finale de "Il padre di Istvan Szabo").
Moretti in un'intervista ha detto che gli sarebbe piaciuto leggere nelle recensioni qualcosa di più sui suoi collaboratori e attori. Il gran parlare che si è fatto del coté ideologico del film e della performance dell'attore-regista ha lasciato infatti questi ultimi un po' in ombra, specialmente i secondi. Del tutto immeritatamente, a dire il vero, perché a mio avviso Silvio Orlando, Mariella Valentini e compagni sono di una bravura a dir poco sbalorditiva. Il primo, che con la sua vocina querula e sgraziata ripete con comica e insieme tormentosa frequenza "Marca Budavari!", disegna un personaggio indimenticabile (quello dell'allenatore della squadra di Michele), destinato a entrare di prepotenza nella storia del cinema. Perennemente in stato di agitazione e prodigo di criptici suggerimenti tattici, Orlando rappresenta meglio di tutti gli altri personaggi quello stato di afasia e di incomunicabilità cui inevitabilmente conduce un uso sovrabbondante e disordinato del linguaggio. Tra le scene più memorabili, vi è quella in cui, durante le ampollose spiegazioni del pre-partita che non interessano a nessuno, lo spogliatoio si svuota (come in "Io sono un autarchico" si svuotava la sala teatrale all'inizio del dibattito), ma Orlando non si scompone, continua a parlare come se niente fosse e, avvicinatosi all'unico ragazzo rimasto ad ascoltare, riversa su di lui la sua logorroica loquela. Mariella Valentini, da parte sua, non è da meno, e dopo l'analogo ruolo interpretato nel teatrale "Jack lo sventratore" ben difficilmente l'invadente idiozia dei mass media potrà trovare in futuro interprete più adeguato. Ma "Palombella rossa" è fatto anche di decine di personaggi di contorno, di caratteri appena abbozzati eppure penetranti ed incisivi, di veloci ma non per questo inutili apparizioni, di folgoranti cammei. Senza di essi il cinema di Moretti non sarebbe lo stesso. Non deve stupire perciò che, se chiudo gli occhi, la prima immagine di "Palombella rossa" che mi viene in mente è quella, marginale eppure bellissima, dell'irsuto istruttore di nuoto il quale, di fronte alle reticenze di Michele bambino a gettarsi in acqua, lo minaccia grottescamente con sempre maggiore veemenza e brutalità: "Guarda che ti porto in acqua alta! Ti porto in acqua alta!".