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TRA LE NUVOLE regia di Jason Reitman

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Invia una mail all'autore del commento kowalsky     7½ / 10  03/02/2010 23:43:32Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Siamo di fronte a uno dei più importanti film americani della stagione, a un'opera che innesca dibattiti a non finire, che riesce a confrontarsi inversamente (diversamente) con l'ottimismo Rooseveltiano di Frank Capra in tempi non sospetti ("La fonte meravigliosa" di Vidor calcava la mano in una direzione diversa).
Ogni epoca ha le sue "ricette" ma evidentemente oggi c'è rimasto soltanto la molla affettiva a supportare una situazione ingiusta per qualsiasi essere umano, qualcosa che nessun John Doe saprà restituirci.
Reitman racconta bene l'esistenza di Ryan, nato a... e vissuto a..., costretto a prendere confidenza con gli aereoporti e i transfert via aerea neanche fosse il fratello fortunato del Tom Hanks di un film irrisolto di Spielberg.
Las Vegas, Nichita, Kansas City, Tulsa, Oklahoma, Detroit, San francisco sono solo alcune delle località di questo perenne terrestre dei nostri tempi, costretto a oscurarsi davanti alla diffidenza del nostro tempo, che poi è il tempo stesso (la distanza delle miglia calcolate in un'arco temporale di un anno).
Il film è un pò freddo, non sempre capace di approfondimento psicologico come un soggetto di questo tipo avrebbe potuto vantare, e forse si sofferma troppo sulla crisi affettiva di Ryan dimenticando per certi versi il potenziale sociale del film.
E così un Clooney senza dubbio affascinante rischia di impatanarsi in tonnellate di glamour per il pubblico di massa, mentre è bene (meglio) evidenziare ben altri temi.
Sarebbe opportuno che lo spettatore dimenticasse la solitudine di un solo uomo e si occupasse non del divo Clooney ma di quelle migliaia di persone qualunque che testimoniano, in un contesto molto Micheal Moore, che la loro resistenza, dopo aver perso il lavoro, è unicamente il supporto costante di una persona cara.
Forse Reitman ha realizzato il suo film più hollywoodiano, nonostante le intenzioni (brutali) di corrompere proprio le multinazionali del cinema.
Eppure il film è davvero vibrante e acuto, e merita una valutazione più profonda di quanto sia lecito concedere.
La "moralina" della valigia in fondo è furbetta, sembra un retaggio di qualche scampolo di naomi klein, buttato per caso, sensazionalismo tacciato di illuminante filosofia manageriale.
Il matrimonio della sorella sembra uscìto da un vecchio film anni settanta, qualcosa tipo Cinque Pezzi facili di cui ho improvvisamente ritrovato il ricordo
Ma altre sfumature rendono il film interessante e a tratti persino splendido: si ride di una sagoma che riproduce due neosposi in vacanza nelle principali località americane, e tutto questo è emblematico. Sarà forse la pop-art della crisi economica di questi anni atroci?
Si può vivere in un'universo globalizzato in tutto, anche attraverso l'espediente del self-made man cinico capace di avventarsi nelle forme più raccapriccianti della comodità umana?
E quanto è deprimente, per non dire lesivo della dignità umana, quel tentativo di conciliare una forma di licenziamento in una serie di cartelle atte a rileggere quell'estraniante vigliaccheria di non poter dire a qualcuno di "farsi da parte"?
Ecco, in tutti questi contesti il film è davvero intrigante e corrosivo.
Peccato che non osi raccontare di più sull'etica di certi ruoli che in fondo fanno parte di una casistica confusa, come la vita di tutti i giorni. E che ognuno gestisce quello che fa unicamente per un ruolo prestabilito, al di là di ogni singola obiettività morale.
Ma mentre John Doe nel film di Capra non si è mai buttato davvero dalla finestra, in questo caso qualcuno l'ha fatto da un ponte.
E si chiamano impiegati, non Gary Cooper