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AMERICAN LIFE regia di Sam Mendes

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Invia una mail all'autore del commento pompiere     7 / 10  21/12/2010 11:51:05Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
In una casa disordinata che assomiglia più a una catapecchia, dove trovano disinvoltamente posto sci da neve o barche per mare, trascorrono parte del loro tempo Verona e Bart, sorpresi all’inizio del film in un divertente confronto sui sapori vaginali fruttati e sugli uteri retroversi.
Due cuori senza frontiere, consapevoli che la vita vissuta è fuori (anche dal matrimonio), in un’esistenza piacevole giacchè gitana e priva di vincoli. Così come libero è il cuore di una bimba in arrivo che batte dentro la pancia della donna.

L’ultimo film di Mendes è la rappresentazione di una coppia non protagonista, poco più che trentenne, che prende le distanze dai rap della gravidanza, dagli stupidi rumori di fondo di genitori fin troppo espliciti e sguaiati, dalle tribolazioni di un pessimismo qualunquista, dalla deturpante saccenza che rischia di far diventare i figli degli omicidi eruditi.
Tra l’ironia sulle mode di indole morettiana, la gentilezza tutta “segreti, promesse e bugie” di Mike Leigh e un pizzico di frustrazione alleniana, Verona e Bart passeggiano su un mondo statunitense fatto di gente che giudica dalle apparenze (la scena in aeroporto è agghiacciante e getta nello sconforto per la sua attendibilità). Una su tutte, l’esempio di Maggie “mille e una notte” Gyllenhaal che cita a pappagallo Simone de Beauvoir e Alice Walker, rifiutando qualsiasi tecnologia avanzata e rimanendo in un contesto hippy di falsa armonia: la punta dell’iceberg di una serie di situazioni farsesche e drammatiche insieme.

A Montreal non è che vada meglio: anche oltre i confini USA tira un vento poco rassicurante. Ma è a Miami che si trova il tempo per piangersi addosso, commiserandosi per non essere riusciti a tenere in piedi un rapporto affettivo, o solo per il timore di non essere in grado di portare a termine la “missione famiglia-unita” con conseguente paura dell’abbandono.
Il tutto rappresentato attraverso un confronto di feeling un po’ forzato che impone allo spettatore l’impressione di stare dalle parte giusta, quella equa e ordinaria che parrebbe condurre inevitabilmente alla felicità; anche questa in realtà chiusa nel suo cerchio imperfetto fatto di pretese agiatezze (“i nonni a chi li facciamo fare?”), circoscritta a una quotidianità ben precisa proprio perché non classificabile come “fuori dal comune”, e rimedio narrativo ottimistico (in mancanza dei veri nonni, ci accontentiamo dei fantasmi) forse troppo superato.

Per non far rimanere i bambini da soli con un cellulare (oggetto che sembra aver drammaticamente sostituito l’ipnotica televisione), è meglio invitarli alla semplice visione di un legno intagliato, alla scoperta delle abilità nello stringere nodi, a godere del sugo di carne messo sulle patate fritte, e a inventarsi un albero benevolo fatto di frutta finta.
“Away we go” è un film povero di budget, quasi estemporaneo. Rispetto agli altri lavori di Mendes esce dai ghirigori ellittici di racconti più impegnati e fa il paio con il viaggio interiore di “Mammuth”, film con un solo attore che però valeva per due, e in uno scenario tutto francese, meno divulgativo e incomprensibilmente arcano. Confrontando i battiti emozionali, direi che l’ “american (way of) life” si ferma intorno a un apatico e migliorabile 70.