caratteri piccoli caratteri medi caratteri grandi Chiudi finestra

HAIR regia di Milos Forman

Nascondi tutte le risposte
Visualizza tutte le risposte
kafka62     7½ / 10  07/04/2018 11:10:21Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Guardando "Hair" con occhio critico e distaccato, viene quasi naturale considerarlo un film anacronistico, inattuale, giunto troppo fuori tempo massimo per poter sperare di incidere in qualche modo sull'attualità. Dodici anni prima, quando il musical omonimo venne presentato a Broadway, certe tematiche come la liberazione sessuale, la tolleranza razziale, l'antimilitarismo e la critica all'establishment, sbattute brutalmente in faccia a un pubblico non ancora allenato alle provocazioni delle avanguardie, potevano effettivamente scioccare e lasciare il segno, ma col tempo la loro carica eversiva si è giocoforza annacquata o, peggio, è stata clamorosamente smentita dai fatti (mi riferisco soprattutto all'incosciente esaltazione dell'uso delle droghe pesanti e della coppia aperta). Se poi si considera che nel film di Forman non c'è alcuna intenzione "revivalistica" (alla "American graffiti", tanto per intenderci), viene quasi da pensare a un grossolano errore di valutazione da parte del regista oppure a un suo grave peccato di presunzione. In effetti "Hair" è in larga parte una innocua visita guidata ai più scipiti luoghi comuni della controcultura hippy (dai capelli lunghi agli slogan tipo "mettete fiori nei vostri cannoni"), affastellati in un bric-à-brac figurativo che non si sa se respingere con disgusto o prendere con ironia: i quattro "angeli custodi" di Claude, ad esempio, riassumono in sé tutti gli stereotipi – nessuno escluso – della variegata fauna dei figli dei fiori anni '60 (modo di vestire, di parlare, di portare i capelli, di stare insieme), in un'operazione tanto semplicistica quanto ingenuamente idealizzante (un po' come avveniva per gli spazzacamini di "Mary Poppins"). Se gli hippies di Forman sono sporchi e randagi, ma tutto sommato buoni e simpatici (anche se qua e là fanno capolino significativi segnali del loro fallimento imminente, come quando la donna di Lafayette, in "Easy to be hard", gli rinfaccia di anteporre le sofferenze del mondo ai sentimenti privati), dall'altra parte borghesi, poliziotti e militari sono accomunati in una acritica condanna di tutto quanto (dall'esercito fino alla scuola) suona come innaturale restrizione della libertà dell'individuo.
Insomma, niente che non si sia già visto innumerevoli volte al cinema (per giunta con ben altra forza dissacratoria). Eppure, nonostante il senso di fastidio che si prova di fronte ad alcune sequenze (quella, intrisa di kitsch, del "viaggio" allucinogeno di Charles, ad esempio), il film, nel suo complesso, funziona egregiamente. Merito indubbiamente delle canzoni di Galt MacDermot, molte delle quali ("Aquarius", "Ain't got no", "I got life", "Good morning starshine", la stessa canzone che dà il titolo al film) esprimono splendidamente quel senso di istintiva e disinibita vitalità, di sfrenata gioia di vivere, che è forse il lascito più importante di quegli anni utopistici e velleitari. Ma "Hair", al di là del suo intrinseco valore musicale, si propone anche come un momento importante del processo di superamento del musical classico. In quest'ottica, il fatto di essere venuto tardi giova al film, che, se fosse stato realizzato dieci anni prima, risulterebbe forse nulla più di una semplice e anodina versione dell'allestimento teatrale. Solo negli anni '70 il musical (pur essendo un genere in profonda crisi) riesce infatti a liberarsi dai vincoli e dai condizionamenti lasciati in eredità dalle opere di Berkeley, Kelly e Minnelli (le quali, più che film, erano mere organizzazioni di coreografie di stampo inconfondibilmente teatrale, in cui le parti narrative avevano una anonima e spesso irritante funzione di collegamento tra un numero e l'altro). Nel 1973, "Jesus Christ Superstar" aveva per la prima volta posto con forza l'esigenza di un diverso rapporto con lo spazio filmico e, grazie all'uso virtuosistico di zoom e teleobiettivi, era riuscito a valorizzare ed esaltare fotograficamente il deserto palestinese in cui il film era girato. "Hair" va ancora più avanti e, oltre a svilupparsi tutto in esterni (in luoghi cult come il Central Park o l'East Village), assegna il ruolo dominante al montaggio anziché alla coreografia (l'apporto della quale appare davvero decisivo solo in alcuni balletti). E' attraverso un montaggio preciso e incalzante, infatti, che Forman riesce a dar conto di una complessità visiva che sarebbe sicuramente stata sacrificata con un minor numero di stacchi. Così, in "Hair" e "Black boys / White boys" esso riesce ad annullare magicamente ogni distinzione tra dentro e fuori (rispettivamente, il carcere e la caserma da una parte, e le strade di New York dall'altra), mentre in "Aquarius" ci consente di assistere allo spassoso balletto incrociato tra gli hippies e i cavalli dei poliziotti. Dal punto di vista narrativo, invece, il film si segnala per un netto squilibrio tra la prima parte (più cantata) e la seconda (più costruita drammaticamente). Si può anzi dire che "Hair" assume una vera dimensione narrativa solo verso la fine, con il viaggio degli amici in Nevada e la sostituzione tra Claude e Berger (la quale è, dei tanti "tradimenti" perpetrati ai danni dell'originale, quello indubbiamente più felice, in quanto consente di dirottare verso un epilogo "a suspense" un soggetto fino a quel momento troppo scialbo e monodimensionale).
In questa contraddizione tra forma e contenuto, tra partitura musicale e struttura narrativa, risiede l'ambiguo fascino del film di Forman, il quale ha investito in esso anche molti dei suoi temi più cari: l'arrivo "da emigrante" di Charles a New York, a bordo del solito Greyhound (splendido il raccordo tra l'ingresso della corriera nel tunnel e l'apparire dei fuochi con cui gli hippies bruciano le cartoline militari), lo scorrere su sfondo nero del volto della bambina vietnamita in "Walkin' in space" (vago ricordo di "Taking off"), i sit-in al Central Park, le performance pseudo-teatrali, fino ad arrivare alla famosa sequenza finale, scandita dalle note di "Let's the sunshine in". L'immagine dell'aereo che, come una enorme, nera bocca, inghiotte nelle sue viscere intere fila di giovani soldati (e che fa il paio con la musica metallica e le parole di morte che, uscendo inopinatamente dall'altoparlante della caserma, interrompono il discorso del generale-Nicholas Ray ai soldati) è probabilmente il vertice più emozionante e puro toccato dal regista cecoslovacco in tutta la sua prestigiosa carriera.