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NOVECENTO regia di Bernardo Bertolucci

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miciopasticcio     7½ / 10  10/04/2010 22:50:16Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Il titolo del film è fuorviante, in quanto l’opera prende in considerazione, attraverso una narrazione molto ellittica, solo il periodo di tempo che va dal 1900, anno di nascita dei protagonisti, al XXV aprile del 1945, data della liberazione dell’Italia dal Nazifascismo. La narrazione prende avvio proprio in questa giornata, per poi ricostruire attraverso un lungo flashback le vicende precedenti in ordine cronologico. Solo nel finale del film c’è una breve prolessi che mostra i personaggi ormai vecchi in un periodo imprecisato.
Novecento è un film degli anni ’70 e va necessariamente contestualizzato: c’è molta retorica politica, soprattutto nella lunga scena della condanna al padrone, retorica che, se aveva ancora un senso nel 1976, oggi, dopo i fatti del 1991 e la caduta del Comunismo, risulta ingenua e fastidiosa. Ma probabilmente, più che di suonare il piffero della rivoluzione, il regista aveva a cuore di testimoniare l’orgia di felicità nel giorno della liberazione; felicità che emblematicamente subito viene ridimensionata nel momento in cui giunge la rappresentanza dello Stato a far consegnare le armi e a riportare tutti sulla terra. Seguendo questa interpretazione anche l’ultima battuta del film, “il padrone è vivo”, è più che mai significativa.
Se l’ideologia del film ha subito il deterioramento del tempo, ciò che invece ha tenuto è la testimonianza partecipata del regista di un mondo che oramai non esiste più: il mondo contadino. Al di là del personaggio di Alfredo Berlinghieri, affidato a un Burt Lancaster che dopo il Gattopardo sembrava volersi specializzare nella parte del testimone di un’era al crepuscolo, è soprattutto il mondo contadino a emozionare e a rimanere nel cuore. Un mondo semplice e puro, che nella sua rappresentazione sembra risentire più dell’influsso di Rousseau che di Marx. A questo tema si ricollega la polemica verso la Chiesa: il film non si dimostra clemente nel suggerire le responsabilità del clero nell’affermazione del partito fascista e riporta alcuni modi di dire popolani gustosissimi (“Entri in seminario da galletto e ne esci da cappone!”). Il messaggio implicito pare essere che la bontà è insita nel cuore dell’uomo a prescindere dalla religione, che appare quasi una sorta di sovrastruttura; questo concetto richiama alcuni film di Buñuel, Nazarin su tutti. Certo anche la rappresentazione dei contadini è idealizzata, tuttavia al giorno d’oggi, invece di tirare in mezzo guerrieri celti, spade e menhir, non sarebbe male ricordare che le nostre origini puzzano ancora di fieno e di letame, senza togliere nulla alla dignità dei nostri avi, anzi.
Per quanto riguarda gli aspetti negativi, forse, nonostante la lunghezza considerevole del film, paradossalmente alcune parti potevano essere sviluppate in modo più approfondito: il personaggio di Anita avrebbe potuto godere di un’attenzione maggiore, tale da porla sullo stesso piano di Clara; invece il suo personaggio appare appena abbozzato e tutta la parte della tragedia successiva alla sua morte, che avrebbe permesso allo spettatore di partecipare al dolore di Olmo e di entrare in un rapporto empatico con lui, viene tagliata.
Questo è un film fondamentale per la storia del cinema italiano, con veri e propri divi nelle parti principali e con una fotografia bellissima che rende giustizia ai paesaggi della Bassa padana. Per poterlo apprezzare è però necessario sorvolare su alcuni aspetti ideologici pressanti negli anni della sua realizzazione ma oramai superati.