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IL PROFETA regia di Jacques Audiard

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kafka62     7½ / 10  16/05/2018 10:15:42Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Il cinema di Jacques Audiard è obliquo, irregolare, fuori dalle definizioni e dai generi, un po' come i personaggi che mette in scena: Carla, la segretaria sorda e frustrata di "Sulle mie labbra", che diventa complice di un ex galeotto in un furto, Tom, in bilico tra affari loschi e sale da concerto in "Tutti i battiti del mio cuore", e Malik, il giovane protagonista de "Il profeta", hanno tutti infatti una caratteristica, quella di non essere mai perfettamente delineati e a fuoco, di essere invece sempre un po' ossimorici, ambiziosi e insieme ripiegati su se stessi, a proprio agio nell'ambiente in cui si trovano e nel contempo dei pesci fuor d'acqua. Allo stesso modo Audiard, quando pare imboccare la strada sicura di un genere, la "sporca" con intuizioni personali che quel genere in qualche modo sovvertono. L'ascesa di Malik da spaesato e analfabeta detenuto a boss rispettato e temuto del carcere è ritratta dal regista quasi documentaristicamente, tra adesione empatica e distacco entomologico, attraverso l'analisi dei gruppi di potere all'interno della prigione (il clan dei corsi, quello degli arabi), i compromessi e le corvées necessari per sopravvivere al suo interno, i privilegi conquistati con la crescita del prestigio tra i detenuti (le prostitute e gli elettrodomestici in cella), le alleanze e le cadute in disgrazia, ma contemporaneamente la figura del protagonista, lungi dall'acquisire quell'aura mitica che ci si aspetterebbe (penso al Michael Corleone de "Il padrino", a cui in qualche modo l'evoluzione di Malik rimanda), si umanizza. Si pensi al fantasma dell'uomo che Malik ha ucciso per ordine di Luciani, il quale gli appare più volte, surrealisticamente, in cella; o alla emblematica scena finale, in cui Malik, scarcerato dopo aver trascorso sei anni nel penitenziario, si allontana a piedi con la moglie e il figlioletto dell'amico morto di cancro, e dietro il piccolo, intimo nucleo familiare si profilano le sagome di tre grosse automobili venute ad omaggiare il nuovo boss, con una canzone da "happy end" (è il Kurt Weill della brechtiana "Opera da tre soldi") ironicamente messa in sottofondo. Di lieto fine non si può certo parlare in un film che non si tira indietro dal mostrare orrori e crudeltà assortite, in una visione hobbesiana e darwiniana del mondo al di qua e al di là delle mura del carcere, nel quale il protagonista si muove con un istinto miracoloso nel sapere sempre qual è la cosa giusta da fare, tra pericolosi doppi giochi, decisioni azzardate e spietati regolamenti di conti. E' lo stesso istinto che in un certo senso sembra guidare anche Audiard, il quale è bravissimo nello scegliere i ritmi, le atmosfere e soprattutto le facce giuste (azzeccatissima quella di Luciani) per sollevare "Il profeta" ben al di sopra di un normale film carcerario.