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LA STRADA regia di Federico Fellini

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kafka62     8½ / 10  06/04/2018 15:09:11Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Con i grandi occhi ingenui spalancati su un mondo brutale e disumano, che pur facendo a pezzi la sua fanciullesca innocenza non riesce mai a cancellare del tutto il suo amore incondizionato per la vita, Gelsomina è forse il più bel personaggio creato dalla poliedrica fantasia di Federico Fellini. Il suo volto incapace di fingere è attraversato dalle emozioni più disparate: la tristezza trascolora facilmente in un sorriso di remissiva bontà, così come l'espressione imbronciata si trasforma in men che non si dica in un sussulto di gioia immotivata. Gelsomina è una maschera non condizionata né dalla ragione né dalla psicologia: in lei sono contenute tutte le sensazioni elementari, pronte ad affiorare in superficie senza il filtro della riflessione o dei condizionamenti esterni. Essere istintivo e primordiale per eccellenza, legato alla natura da un rapporto magico e arcano, profondamente religioso ma di una religiosità ancestrale e pre-razionale (come si vede bene nella sequenza della processione), clown lunare e incorporeo, oltre che fondamentalmente asessuato come quasi tutti i personaggi interpretati dall'indimenticabile Giulietta Masina (ma si pensi anche al Benigni de "La voce della luna"), Gelsomina è l'incarnazione stessa del principio cardine della religione cristiana: quello cioè dell'accettazione totale e disinteressata del proprio destino, per quanto misero e infelice questo possa essere. Comprata da Zampanò, violentata dentro uno squallido trabiccolo a motore e cinicamente ammaestrata come un animale da circo, essa accetta di seguire il suo uomo-padrone senza alcun motivo, senza mai chiedersi il perché (l'unica risposta essendo forse che "se non ci sono io, chi ci pensa a lui?"). Gelsomina è una pura di spirito (nel senso dostojevskijano del termine, vena di follia compresa), una di quelle candide persone che non salgono mai sul proscenio della vita ma stanno sempre in un angolo, con la perenne paura di esser di disturbo agli altri, pronte a chinar la testa e persino a chiedere scusa quando vengono umiliate, come cani che si accontentano di un posto qualsiasi pur di poterlo chiamare casa.
Il personaggio di Zampanò è non meno bello e toccante di quello di Gelsomina. Uomo rozzo, arrogante e violento, egli desta alla fine più pietà che rabbia. Anzi, egli è l'unico personaggio veramente tragico del film, perché ha avuto al suo fianco una persona che si è concessa a lui con abnegazione e senza chiedere nulla in cambio, ma, tutto preso dalla sua strenua ed egoistica lotta per la sopravvivenza, non se ne è accorto se non quando ormai era troppo tardi. Zampanò è l'uomo allo stato bruto, incapace di sollevarsi dal fango in cui è sprofondato (anche se nel pianto finale in riva al mare si può leggere l'intervento purificatore della grazia divina), al contrario del Matto che è invece una creatura angelica e celeste (e difatti appare a Gelsomina con tanto d'ali, mentre volteggia su una corda sospesa a mezz'aria). Tra questi due personaggi antitetici Gelsomina fa un po' da trait d'union, espressione di un misticismo, di un anelito all'Assoluto che Fellini racconta (e questa è forse la cosa più notevole di tutto il film) in un modo del tutto personale e anticonvenzionale, definibile (a dispetto di coloro che hanno parlato a proposito de "La strada" di "delitto di lesa realtà") come "realismo magico" o "realismo trascendente".
Non sono mai stato, lo confesso, un grande ammiratore di Fellini. Pur in un periodo di generali apologie e incensamenti, non posso ad esempio nascondere che la filosofia contenuta nella maggior parte dei suoi film mi sembra oltremodo imbarazzante, così avulsa dal proprio tempo, così a-problematica e inoffensiva, quando non addirittura reazionaria. Il messaggio cristiano è poi nelle prime opere soverchiante: ne "La strada" esso è insito già nella struttura archetipica dei personaggi, ma è sottolineato altresì da un simbolismo greve e pleonastico e da dialoghi catechistici e predicatori (come nella scena in cui il Matto spiega a Gelsomina: "Se sapessi a che cosa serve questa pietruzza sarei il buon Dio, che sa tutto, sa quando nasci e sa anche quando muori. Questa pietruzza serve certamente a qualcosa. Se è inutile, è inutile anche tutto il resto, persino le stelle. E anche tu, con la tua testa di carciofo, servi a qualche cosa").
Non mi sembra comunque giusto respingere "La strada" in base a un criterio prevalentemente ideologico, come molta critica marxista ha fatto all'uscita del film. La mia intenzione è semmai quella di criticarlo sotto un profilo estetico e formale. E da questo punto di vista bisogna riconoscere a Fellini almeno lo sforzo di aver voluto affrancarsi, in pieni anni '50, da un realismo pedissequo e noioso: il neorealismo aveva ormai fatto abbondantemente il suo tempo e il regista riminese, cogliendo al volo i tempi nuovi, fa tabula rasa di qualsiasi riferimento ad esso, realizzando un film atemporale, ubiquo, sospeso tra gli espressivi primi piani dei protagonisti e i campi lunghi e indifferenziati di campagne talmente note da risultare irriconoscibili (con sullo sfondo magari una casa colonica o un crocevia), un film che potrebbe essere ambientato dovunque (e a nulla servono i dialetti parlati dai personaggi, perché veneto, emiliano, toscano e romano si confondono e ci confondono).
Piuttosto, bisogna dire che il film è ancora legato a una logica narrativa tradizionale. Vi sono, è vero, ne "La strada" alcune digressioni tipicamente felliniane (ad esempio, il cavallo che nella notte passa davanti a Gelsomina seduta sul ciglio della strada, o la visita al piccolo malato tenuto nascosto in uno stanzino del casolare), ma la fantasia del regista appare ancora imbrigliata e controllata, al punto che, se pur superiore a "I vitelloni", il film è lontano dal livello qualitativo raggiunto in quelle opere in cui, in bilico tra soggettivismo e maniera, i dettagli, le divagazioni narrative e le figurine ai margini risultano importanti quanto e forse più della storia stessa, e la macchina da presa si lascia catturare da fugaci suggestioni e labili incantamenti, cogliendo la poesia dove meno si crederebbe di poterla trovare. Ne "La strada", a mio avviso, prevale ancora il Fellini pedagogo e moralista, anche se per fortuna il suo moralismo si presenta sotto la veste lieve ed eterea di personaggi e situazioni che sembrano fatti apposta per entrare nell'immaginario cinematografico collettivo, ossia nel Mito, così come la musica orecchiabile, romantica e un po' ruffiana del pur grande Nino Rota.