caratteri piccoli caratteri medi caratteri grandi Chiudi finestra

ARIEL regia di Aki Kaurismaki

Nascondi tutte le risposte
Visualizza tutte le risposte
amterme63     7½ / 10  08/07/2012 17:30:31Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Aki Kaurismaki si conferma come Bergman un regista che riesce a usare gli stessi temi nei suoi film senza annoiare, anzi tirando fuori ogni volta una variazione che li rende più profondi o interessanti.
Il suo scopo è quello di ritrarre quello che resta nel periodo post-moderno dell'esistenza umana in condizioni di estraneità sociale. L'oggetto della sua visione è il mondo degli esclusi, cioè di quei ceti sociali che nascono ai margini del mondo capitalista e che il sistema non integra (o non vuole integrare) e che saranno sempre destinati a subire scacchi, punizioni e umiliazioni. Nascono senza speranza, vivono senza speranza, muoiono senza avere vissuto, anche perché loro stessi non sanno il come e il perché della vita.
In qualche maniera sono i diretti discendenti dei personaggi ritratti nei film di Bunuel e Pasolini ("I figli della violenza" e "Accattone"), con una profonda differenza però: l'ambiente a loro misura e somiglianza (le periferie popolari) è scomparso, adesso sono privi di qualunque retroterra e sopravvivono di espedienti nella parte anonima e degradata del mondo urbano. Sono degli sradicati, privi di qualunque cultura propria, che si limitano a scimmiottare i modelli che calano dall'alto (l'aspetto esteriore a gangster dandy da immaginario collettivo cinematografico, il frequentare chiassosi locali-discoteca di bassa lega tracannando birra da parte del protagonista).
L'essenza (anti)esistenzialista del vivere post-moderno è stata ritratta da Bresson con il suo "L'argent". Kaurismaki fa vivere il protagonista proprio in questo mondo, in cui non c'è scampo, si viene stritolati in meccanismi di cui non si ha il minimo controllo, tutti basati sul dominio incontrastato che ha il denaro e la sopraffazione del più forte sul più debole. Il tutto nella maniera più asettica e impersonale possibile. Infatti "Ariel" di Kaurismaki è il film che anche a livello formale si ispira di più al controverso film-testamento di Bresson. Le scene più drammatiche vengono rapresentate in maniera sincopata o simbolica, in molte scene la mdp attende dal di fuori che si compia un avvenimento drammatico (una rapina, un'uccisione) che si volge in un interno (come nei film di Haneke). Questo per comunicare allo spettatore la conseguenza e il valore del nudo fatto, senza distrarlo con gli aspetti drammatici esteriori. Del resto nel mondo post-moderno tutto è indifferente (come ad esempio nei film di Tarantino), niente ha valore se non in senso commerciale.
"Ariel" però in qualche maniera si discosta dai cupi e pessimisti "Delitto e castigo", "Ombre in paradiso", "Amleto si mette in affari". Infatti in maniera sottile, quasi inconsapevole, fa emergere dai personaggi un qualcosa che assume il valore della solidarietà, del senso di dedizione e sacrificio, di difesa della propria dignità, l'andare in fondo costi quel che costi. Eppure anche qui i personaggi sono come abulici, rinsecchiti, chiusi nella loro incomunicabilità vocale. Vocale, ecco! Il diluvio di parole, la drammatizzazione estrema degli atti (vedi Tarantino) sono i mezzi con cui il mondo post-moderno straborda e rappresenta se stesso. Kaurismaki introduce invece personaggi che fanno l'opposto, che usano un'altra via per esprimersi e rappresentarsi, in genere uno sguardo fisso, un sorriso accennato, un gesto banale come offrire un pacchetto di sigarette. Soprattutto la musica è l'unico mezzo che riesce a disvelare lo stato d'animo dei personaggi ed è sempre presente in quasi tutte le scene più importanti.
Questo sistema così minimalista di vivere dà estremo risalto allo scopo degli atti (aiutare la persona cara, sacrificarsi per qualcun'altro) al di là del modo con cui si esprime (mezzi fuori legge). In qualche maniera in "Ariel" fa capolino quasi uno spirito involontariamente religioso, qualcosa che sembra uscito da un romanzo di Dostojevskij (i puri di cuore sono esclusi, magari delinquenti, in ogni caso ai margini). Alcune piccole scene nella loro semplicità e povertà hanno una portata emotiva notevole (come quando il bimbo guarda per l'ultima volta il profilo delle gru del porto di Helsinki nel cielo della tarda sera).
Alla fine rimane nello spettatore tutta la disperazione dei personaggi, il loro piccolo grande eroismo quotidiano, il coraggio di sognare l'impossibile e di sacrificare tutto per cercare una nuova vita, magari impossibile e illusoria. Almeno ci hanno provato.