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SEGRETI DI FAMIGLIA regia di Francis Ford Coppola

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Invia una mail all'autore del commento kowalsky     7 / 10  27/11/2009 22:35:22Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Unica concessione a colori è un'immagine in flashback: il passato si colora di rosso, il presente è un b/n dove paradossalmente sovrabbondano le ridondanze tecniche.
Resto sconcertato quando si usano termini come "sperimentazione" per sottolineare la riscoperta del b/n nel cinema contemporaneo. Non mi sembra una rarità d'essai (pensiamo a Good night good luck di Clooney per esempio).
Il lato interessante del film di Coppola, film potenzialmente straordinario che diventa suo malgrado (nell'epilogo) "ordinario" è proprio l'uso sovversivo che fa del b/n. Se la tecnica non è tutto, il barocchismo Wellesiano della mise in scene sottolinea più cose di quanto dovrebbe.
E' un film che può sconcertare o irritare, ma raggiunge spesso picchi di alto lirismo e di formidabile pathos visivo.

Che Coppola sia stato spesso barocco e ridondante non è una novità per nessuno, anzi: vogliamo ricordare il glamour di One from the heart, il restyling fifties di Peggy Sue, il manierismo di Cotton Club, il b/n (ancora sì) sfavillante e ombroso di Rumble Fish, il grand guignol rosso-sangue di Dracula? In fondo anche questa è una caratteristica del suo cinema, e non per questo ha negato agli spettatori le emozioni, anzi, forse ne ha sperperate un pò troppe.
E' il caso di Un'altra giovinezza, storia affascinante (gemellata con il Benjamin Button di un paio d'anni fa) persa tra incroci emotivi un pò troppo esposti.

Il canovaccio di "Segreti di famiglia" è potenzialmente grandissimo. Una moderna rivisitazione dei moduli Dostoevskijani, riflesso gli umori cangianti di un'Argentina quasi compressa nei suoi riti comunitari (la prima parte fa pensare a Do the right thing di Spike Lee transfugato a Buenos Aires), come in certe pellicole contemporanee del sud-america (El Abrazo Perdido, la Quincenera, Maria full of grace).
La messinscena "dimessa" delle prime immagini fa invece pensare al teatro americano, e a un certo Tennessee Williams.
Porte che si aprono o si chiudono, un passato da rimuovere e un presente da cancellare. E' così no?
I paragoni con l'esperimento (ehm) di Haneke non trovano effettivo riscontro.
Qui c'è abbastanza carne al fuoco per ritrovare Gabriel Axel e il suo "street scene" incrociato in una strana selva di desaparecidos senza identità (o dalla difficile vocazione sessuale, come nel caso del travestito professionista, alias Faust-a).
Ma ecco un'altra contraddizione: non appena il film lievita una strada più cinematografica che mai, il miraggio (o l'obiettivo primario) del palcoscenico si accentua ancora di più. Com'è possibile?
Nella sua saga familiare, Coppola tenta anche la carta dell'eccentrico - su tutti, la felliniana rappresentazione teatrale o l'omaggio al grandissimo Micheal Powell (dopo Almodovar comincio a pensare che il prossimo cult-movie del passato tornerà a essere "Scarpette rosse") risultando talora più melodrammatico di quanto dovrebbe.
La parte debole del film è proprio in tutto o quasi l'epilogo finale. A parte il frastornante delirio di una rivelazione che tutti gli spettatori avranno già compreso fin dall'inizio del film, l'Edipo Re ha in realtà "ucciso" diversamente.

Luci come fari abbaglianti irrompono nel meccanismo di un'Arte della vita che preannuncia o allude sistematicamente alla morte, costellata di tanti troppi incidenti stradali di frasi replicate più volte ("Come hai potuto farmi questo?" - "io sono tuo padre"), di nevrosi generazionali generate tra quattro pareti domestiche o nel mezzo di un recital tristemente decadente.

Risultato, un grande film incompiuto, incapace di chiudersi nel segno della propria creatività visiva.
I dialoghi non sempre riescono a definire qualitativamente le loro intenzioni, se poi andiamo a parare - come del resto accade - in una "normalità melodrammatica" che stride con la grandeur tecnica del regista - cfr. per quanto criticabile resta una summa del suo cinema, a cominciare dalla sua ricerca stilistica, il personaggio di "Alone" (?) sembra la caricatura di una scrittrice rosa inglese di fama internazionale di cui mi sfugge il nome (qualcuno può aiutarmi a rivelarlo?), la moglie di Tetro (bellissimo nome e titolo) è entusiasmante nel suo positivismo "materno".

Un film che tuttavia, tra follia e pretenziosità, rivela un cineasta ancora capace di sovvertire le regole e di andare "oltre la finzione", anche a rischio di provocare qualche segno di disagio.
Si amerà Tetro con la stessa concentrazione metodica dei pochi eletti che hanno visto e amato "Il lungo viaggio verso la notte" di Lumet, riscoperto dopo molti anni.

E infine Vincent Gallo. Il nemico acerrimo di tutti i registi americani e non - v. quante ne ha dette su Coppola prima di partecipare a un suo film - verrebbe voglia di prenderlo a mazzate in testa, ma onestamente è grandissimo. Una specie di Al Pacino intossicato di kryptonite.

Anche se da queste parti la "maledizione" non è più di casa, resta una certa delusione per un personaggio così vero e umano: perchè alla fine ignoro il tentativo malvagio di umanizzarlo