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CAPPOTTO DI LEGNO regia di Gianni Manera

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moonlightrosso     2 / 10  24/06/2020 17:56:37Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Gianni Manera (1940-2013), è stato, a suo modo, un personaggio di spicco nel sottobosco del cinema di genere italiano.
Esordì negli anni sessanta come generico di terza fila con all'attivo una manciata di films minori ma anche un piccolo ruolo nello sceneggiato televisivo "Vita di Dante" di Vittorio Cottafavi (1965). Passato quasi di punto in bianco alla regia, ci regalò, nel decennio successivo, tre films, di cui è lecito chiedersi ancora oggi chi gli abbia mai dato i soldi per realizzarli.
Forte dei due precedenti scults "La Lunga Ombra del Lupo" (1971) e l'allucinante "Ordine Firmato in Bianco" (1975), con oltre quattro anni di lavorazione e l'alternarsi di ben quattro direttori della fotografia, il compianto cineasta di origine abruzzese, nella consueta e megalomane triplice veste di regista, protagonista assoluto ed autore del soggetto, partorisce un indigeribile e pretenzioso pseudo-polar dove si coniugano, con rara goffaggine, dramma, azione, impegno sociale e persino esegesi storica sulle origini della mafia.
Nel prologo virato seppia il Manera sciorina un'accozzaglia di fonti storiche di vario genere, con le quali vorrebbe dimostrare, secondo una sua originalissima, per non dire azzardata o peggio ancora campata per aria impostazione, come la mafia debba in realtà trovare i suoi natali nel banditismo abruzzese della seconda metà dell'Ottocento. Coloro che riuscirono a sfuggire agli arresti ed alle fucilazioni sarebbero poi emigrati negli Stati Uniti per dar vita, unitamente ai tanti immigrati siciliani, calabresi e napoletani, a Cosa Nostra (e qui davvero non si finisce mai di imparare!).
New York: la famiglia Talascio, a seguito della scarcerazione del suo uomo di punta Tony, ("ca va sans dire" interpretato dallo stesso Gianni Manera), ristabilisce il prestigio e il dominio territoriale, uccidendo i più importanti membri della concorrente "Black Power", la mafia dei neri, nonchè il loro capo carismatico John Dixon, impersonato dal re della blacksploitation Fred Williamson.
In barba ad ogni logica narrativa, la famiglia si trasferisce interamente in Abruzzo (sic!), per il desiderio espresso dall'anziano capofamiglia Don Vincenzo Talascio (un Michel Costantin al punto più basso della sua carriera) di morire al paese natio. Qui il vecchio boss dovrà però subire l'affronto da parte di Don Torlo, cane sciolto della mafia palermitana, consistente nell'uccisione di suo fratello e di sua moglie. A ciò farà seguito una sanguinosa faida fra le due famiglie inframmezzata da un'impossibile storia d'amore fra Carminuccio, fratello minore di Tony Talascio e Angela, figlia di Don Torlo.
Il film termina con la morte di Don Torlo, di sua figlia Angela nel tentativo di proteggerlo, ma anche con l'arresto dei Talascio. Questi verranno però uccisi da un misterioso cecchino assoldato dai poteri occulti della politica e della magistratura (sic!).
Stiracchiato fino alla nausea e penalizzato anche dai lunghi intervalli intercorsi tra un'interruzione e l'altra, il film risente di una lavorazione stratificata e di una sceneggiatura malamente rabberciata a seconda del budget di volta in volta messo a disposizione, ora quasi opulento, ora miserrimo.
La modesta e maldestra regia del Manera non riesce poi minimamente a contenere, anzi piuttosto esalta, tutte le incongruenze presenti in gran copia nella pellicola. Segmenti narrativi lasciati inspiegabilmente in sospeso, personaggi che appaiono e scompaiono dalla scena senza una logica, storia che fa acqua da tutte le parti. Che fine fa, ad esempio, la guerriglia iniziale, che poteva essere un buon incipit, con la Black Power? Davvero i neri sono così sprovveduti da non organizzare la benchè minima vendetta? Perchè mai una famiglia così importante come quella dei Talascio che ha a New York il centro dei propri loschi affari ed interessi si trasferisce tutta quanta e definitivamente nello sperduto paesello abruzzese? Da dove è spuntato Don Torlo e perchè ce l'ha tanto con Don Vincenzo?
Spostandoci sul lato attoriale, con un nepotismo da far quasi tenerezza, il Manera sacrifica i tanti bravi caratteristi presenti nel film del calibro di Nello Pazzafini, Enrico Maisto e Tommaso Palladino, per preferire, nel ruolo di Carminuccio, il fratello minore Enrico, coautore anche della sgangherata sceneggiatura, che si firma, come nei precedenti films del fratello con l'improbabile pseudonimo americaneggiante di Joseph Logan. Attore quanto mai inespressivo e scialbo, ebbe a dedicarsi dopo le sciagurate esperienze cinematografiche familiari, alla pittura ed alla scultura, per lui foriere di migliori soddisfazioni.
Assai inopportuno ci è poi parso l'aver relegato a ruolo di comparsa muta la francese Haydèe Politoff, che diede buona prova di sè nei biagettiani "L'età del Malessere" (1968) e Interrabang" (1969) e che forse sconvolta da cotanta incompetenza, decise, dopo questo film, di abbandonare la carriera di attrice. In compenso, la tal Maria Pia Liotta (consorte del Manera, celatasi dietro lo pseudonimo decisamente trash di Maria Pia Le Mans), pur essendo totalmente a digiuno di qualsivoglia base recitativa, è chiamata a ricoprire addirittura un triplice ruolo: quello di Angela, di sua madre da anziana e persino da giovane, quando, in breve flashback, fece perdere la testa ad un allor rampante Don Vincenzo, maldestramente ringiovanito con dozzinale tintura per capelli.
Partecipa al guazzabuglio anche la figlioletta del Manera nel ruolo della nipotina di Don Vincenzo, prima esperienza per un radioso futuro di affermata cantante, o almeno così si evince dalle informazioni ricavate dal suo personale sito internet.
Se si ha il coraggio di resistere per ben 130 minuti (tale è la durata del film!!!) davanti ad un Manera che ruba la scena comunque, dovunque ed a chiunque, manco fosse Orson Welles, nonchè davanti all'insipienza attoriale del suo parentado, la pellicola, in tutta onestà, non può dirsi scevra di quei momenti involontariamente esilaranti, in grado di appagare anche i palati più sopraffini degli esteti del brutto.
Come non rimanere indifferenti davanti al paesello abruzzese che accoglie Don Vincenzo con tanto di fanfara, pistolotto del parroco e cerimonia solenne del sindaco (è un criminale mica un eroe!!!); e poi ancora: la famiglia Talascio che assurge ad unico baluardo a seguito del furto del tesoro della SS. Trinità ad opera degli uomini di Don Torlo (ci si potrebbe anche rivolgere alle forze dell'ordine, non siamo tutti mafiosi!!), tesoro al quale i paesani tengono più dei loro figli, secondo uno stereotipo forse ancora valido per le popolazioni della foresta amazzonica. Proseguendo nell'excursus, non possiamo dimenticare i frequenti dialoghi ridondanti e ridicoli, che raggiungono vette irraggiungibili di comicità involontaria nel momento in cui la Liotta, nel ruolo di Angela, implora Carminuccio a non riempire di lutti il loro amore (vedere per credere!!); l'imbarazzante numero di Charleston della medesima Liotta, quando impersona la madre di Angela da giovane; il suo agitarsi da tarantolata, totalmente fuori sincrono rispetto alla musica, scorre come un flusso di coscienza nella mente di Don Vincenzo prima di morire, quale ricostruzione involontaria di un'assai realistica anticamera dell'Inferno; i mafiosi da fumetto agghindati anche sotto un sole cocente con gessato nero e Borsalino (fidatevi del Manera! Se vi recate a Palermo, a Corleone, a Marsiglia, a New York o dove vi pare, vi accorgerete che i mafiosi vestono tutti così!). Deliziosa è poi la trovata dei due "en travesti" che fanno saltare in aria la macchina degli uomini di Don Torlo attaccando un ordigno alla carrozzeria; addirittura sublime la scritta "Famiglia Talascio" sulla carlinga dell'aereo personale, tanto per non farsi notare e con il quale Tony, in un lampo di genio, vorrebbe raggiungere New York all'inseguimento di Don Torlo (è un bimotore non un Jumbo!!!), per poi ripiegare verso Marsiglia (piani di volo?, rotte definite? contatti con la torre di controllo?). Da antologia, il delirante epilogo in cui il capo della magistratura, dopo aver farneticato contro movimenti eversivi come le Brigate Rosse o Nere che siano (sic!), quali cause dei delitti di mafia, senza ovviamente addurre la benchè minima motivazione, procede ad affastellare pensieri di Novalis, Von Clausewitz, Bacone e davvero chi più ne ha più ne metta, sulla moralità della politica.
Dopo questo film, del quale non si conoscono gli incassi ma forse sarebbe meglio non conoscerli, il Manera incontrerà sempre maggiori difficoltà nel reperire fondi (indovinate perchè?!) per lavori che, sfortunatamente per lui e fortunatamente per eventuali malcapitati spettatori, non verranno mai portati a termine, tra cui il più volte annunciato "Tragedia (credo, visti i precedenti, in tutti i sensi) a New York".

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