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VINCERE regia di Marco Bellocchio

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LoSpaccone     7½ / 10  11/06/2009 12:58:36Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Diciamoci la verità, ultimamente l’Italia, tranne che in pochi casi, non è riuscita quasi mai a sfornare film che dessero pienamente l’idea di “Cinema”, che avessero un’anima propria, un’autenticità e una credibilità di fondo che consentissero di superare quella più o meno accentuata e irritante sensazione di “recita filmata” che spesso si ha, a causa di attori e registi sopravvalutati, altre volte a causa di una ormai latente incapacità di scrittura, spesso mal celata dalle contaminazioni televisive (volute?) tanto di moda ultimamente.
Nel caso di “Vincere” (così come era stato per “Gomorra” e per “Il divo”) siamo al cospetto di un film che vive di luce propria, che non cerca soluzioni manieristiche per convincerci di essere vero ma che è il frutto sincero di un regista che non è solo regista ma anche e soprattutto autore. Un film raffinato e complesso, stilisticamente affascinante, che riesce a reggersi in maniera sorprendente sull’equilibrio sottile di un racconto che intreccia realtà e finzione, spunti dalla forte carica simbolica e documenti dell’epoca, e che evita molti dei luoghi comuni (narrativi) a cui spesso viene affidato il ritratto di Mussolini.
La prima parte di “Vincere” è sicuramente la migliore, grazie a quella vena di erotismo morboso che pervade il racconto e che non si manifesta solo negli amplessi ma che si avverte nella tensione emotiva che lega i due amanti, un legame per certi aspetti malato in cui il demone della fame di potere che possiede lui (un allucinato Filippo Timi) corrompe anche lei (un’intensa Giovanna Mezzogiorno) rendendola schiava di un uomo grazie a un sentimento che ha poco dell’amore e molto della fascinazione di una personalità carismatica.
Nella seconda parte prende il sopravvento il dramma personale di Ida; Mussolini scompare dalla scena e il resoconto del suo percorso politico viene affidato esclusivamente ai cinegiornali e ai filmati d’epoca. Insomma, il film perde un po’ la bussola, si concentra in maniera ripetitiva (e prevedibile) sulle sequenze del manicomio e nel finale non spiega adeguatamente i motivi e le circostanze della fuga di lei e dell’internamento di Benito figlio, ormai cresciuto (anche lui interpretato da Timi).