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VIOLENT VIRGIN regia di Koji Wakamatsu

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Barteblyman     8 / 10  17/10/2013 15:01:23Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Esattamente un anno fa, a seguito di un incidente con un taxi, moriva quello che ai tempi veniva considerato (certo rozzamente) uno dei pilastri della pornografia giapponese: Wakamatsu Kōji. Figlio di quella nuova onda nipponica che tra gli anni Cinquanta e Sessanta, con il nome di gruppo Kurosawa, iniziava la produzione di film porno in 8 e 16 mm Wakamatsu era più correttamente uno dei portatori del cosiddetto cinema politicizzato, quel cinema che negli anni Sessanta e Settanta infiammava sia l'Europa che l'Asia. Il pinku eiga (soft-core) di Wakamatsu è quindi una modalità espressiva che attraverso il nudo e la violenza mira alla reinterpretazione in chiave artistica della coercitiva repressione sessuale, politica e poliziesca (da lui stesso brutalmente sperimentata). In patria i suoi film non vengono propriamente accolti con il dovuto entusiasmo, per la stampa Wakamatsu Kōji non è altro e nulla più che un disonore per il Giappone. E' un sovversivo, un provocatore, i suoi film sono spazzatura. Solo con gli anni la sua figura e la sua prolifera filmografia han visto sedimentare o maturare il giusto riconoscimento. A 76 anni suonati era un regista più che mai attivo, non fosse stato per un taxi arrivato nel momento sbagliato in quel di Tokyo, Wakamatsu avrebbe continuato a sfoderare la sua arma più potente: il cinema. Detto questo, Violent Virgin. Un simpatico gruppetto composto da tre uomini e quattro donne trasportano con loro una coppia di prigionieri. Bendati, i due vengono scaricati in un luogo desolato e ventoso. Praticamente subito si evince che stiamo per assistere ad una esecuzione. La coppia, Hanako e Hoshi, sono due amanti clandestini, la donna del boss e uno dei suoi dipendenti. La punizione è or dunque inevitabile nonché inesorabile. Non fosse per una clausola che renderà il seguito oltremodo bizzarro e quindi inizialmente kafkiano: il boss ha dato l'ordine di chiamare il prigioniero capo.

Nel film di Wakamatsu ci sono una tenda, una croce, degli uomini e una landa desolata. Uno spazio incorporeo tradotto come uno scantinato o come un territorio in prossimità di un lago. Nel tentativo, certamente astruso, di addentrarmici non ho potuto fare a meno di ripensare a Pasolini e alla sua ricotta, ossia a La ricotta (1963). Anche in quel film -episodio- vi è una croce e un individuo in croce e anche in quel film vi è l'interazione tra bianco e nero e colore. Lì il bianco del bianco e nero rimandava ad una qualche sacralità, ad un luogo non inquinato dal mellifluo, ad una zona (paradossale) di sacra appartenenza. Il colore invece è il luogo dell'egoismo estremo e della estrema soggettivizzazione, dello sguardo fine a sé stesso. Un luogo che è anche lo stesso occhio del regista, il luogo a colori di quella che non è "l'educazione alla riflessione" [a tal proposito il libro Lo cerco dappertutto di Gabriella Pozzetto]. Se per Pasolini in quella croce c'era la criminale caduta del sottoproletariato, per Wakamatsu -nella sua croce- vi è ugualmente una caduta, non di una classe sociale e umana ma di un corpo, di una sessualità in ostaggio nonché di un corpo sacrificale. Una caduta che intreccia simbolismi evangelici e in special modo arché pagani. Qui poi il colore non costituisce il vero o l'originale ma il calore; il calore del colore, il calore salvifico della riconquista del lato animale.

Hoshi, l'animale. Il capo branco suo malgrado. Il cosiddetto uomo giusto al momento giusto che può riportare le cose allo stadio ideale. Questo grazie anche alla sua musa, alla sua esca, all'amata Hanako. Oggetto d'amore da rincorrere e con la quale correre nudi (come nella copertina di Með suð í eyrum við spilum endalaust dei Sigur Rós). La deliziosa infinita possibilità del mondo onirico. La dolce Hanako, scintilla, magna pars nell'istintività animale di Hoshi, e non c'è coda che tenga. Una donna ispiratrice e cosciente. La creatura più cosciente, la sola capace di avvertire uno scantinato buio in un luogo all'aperto. Lei, costretta sì all'immobilità ma anche ad una visione globale, dall'alto. La prima a sentire sulla nuda pelle la brutalità dell'aria gelida. Il soffio dato dal progressivo sfaldarsi della città in decadenza. O forse anche queste meandriche risposte fanno parte del calore-colore del sogno consolatorio di un Hoshi che nel mondo in bianco e nero è, più semplicemente, uno dei tanti tasselli della barbarie generale se non l'animale più spietato di tutti. Capace di contaminare il colore con la cruda verità del bianco e nero nonché con alienazioni demiurgiche. Mah.

Un Mah il mio che quasi certamente ballonzola in quello che è un nodo nichilistico nonché, giustappunto, la morte di un Dio. Una morte che, a dispetto delle filosofie d'oltralpe, non garantisce nemmeno la libertà di appartenersi. Di essere per sé stessi essendo per gli altri. Un nichilismo passivo che trasforma il suo stesso antro gocciolante in una tana strategica. Con un Cristo che invoca la salvezza e un Dio che risponde "Vorrei ma non posso". E Dio non può perché la sua natura e antropologicamente animale. La salvezza alla fine è quindi, chissà, ad appannaggio del soave mondo del sogno? Il bel mondo ove dar fuoco ai pali e ai paletti, alle storpiature del bislacco animale umano, alle oppressioni di svariata matrice? Chi può dirlo?

Al momento nonché in conclusione, a seguito di un saluto ed un inchino, rintraccio la similarità che lega i due amanti. Amanti ciechi all'inizio -che manco si riconoscono- e poi corpi allegorici che si caricano sul groppone qualcosa di più di una pena amorosa. Si ritrovano ad essere il frutto di un parto gemellare, sbocciati dall'utero-terra. Un corpo unico che si scinde in due argomenti. La ricerca di Hoshi e il martirio di Hanako. Un corpo sociale e la sua diramazione, la deriva o la presa di coscienza ma soprattutto Wakamatsu Kōji e il proprio spettatore. Vale a dire buona visione eventuale e ai posteri, nelle proprie profumate stanzette, l'ardua sentenza.