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L'INFANZIA DI IVAN regia di Andrei Tarkovskij

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kafka62     8½ / 10  26/01/2018 16:36:04Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
La macchina da presa mostra in primo piano il volto di un bambino biondo attraverso la sottile ed avanescente tela di un ragno, quindi sale lentamente lungo il tronco di un albero per inquadrare dall'alto un paesaggio bucolico che evoca un'atmosfera di quiete e di serenità; il muso di un capriolo e il volo di una farfalla ci danno la confortante sensazione di essere in un paradiso terrestre, in un luogo magicamente deputato all'armonia e alla pacificazione dei conflitti, e magico è indubbiamente (per la libertà che esprime, per l'assenza di corporeità, per la soprannaturale naturalezza con cui si svolge) il volo al di sopra di alberi e prati nel quale culmina la scena; ad un certo punto appare, con il volto sorridente e contadinescamente pieno di vita, la madre del bambino, che guarda con infinita tenerezza il figlio mentre si sciacqua il viso con l'acqua del secchio; ma tutt'a un tratto, inopinatamente, un rumore secco e metallico rompe l'incanto, l'inquadratura si fa sghemba e il bambino, ora con la faccia sporca e gli occhi inquieti, si sveglia bruscamente dal sogno, catapultato in una realtà completamente diversa: paesaggi desolati e arsi, fango, rovine, carcasse di aerei e cannoni, filo spinato. Con questa famosa e indimenticabile sequenza onirica (una delle più belle dell'intera storia del cinema), Tarkovskij ha fatto il suo eclatante esordio nel lungometraggio, dimostrando, a soli trent'anni, di essere in possesso di uno stile straordinariamente inventivo e originale e di una personalità registica senza eguali. Nel contrasto tra sogno e realtà (sottolineato anche dalla fotografia: quanto il primo ha tonalità chiare e luminose, tanto la seconda risulta livida e grigia) è adombrato, in termini puramente ed esclusivamente cinematografici, il senso stesso del film, vale a dire, da una parte, l'opposizione tra l'ideale (non il trascendente, giacché il Tarkovskij spiritualista era ancora di là da venire) e il mondo sordido in cui esso ambisce a realizzarsi; dall'altra, il superamento del vieto e abusato realismo (e ancor più del soffocante e riduttivo realismo socialista) in favore di un atteggiamento prevalentemente soggettivistico.
Per quanto riguarda quest'ultima caratteristica, essa va intesa nel senso che lo sguardo del regista viene a coincidere, in maniera sistematica e mai casuale, con la soggettività dei personaggi del film (non solo da un punto di vista narrativo, ma anche a livello di semplici movimenti di macchina o di singole sequenze, dai sogni di Ivan che, interrompendo senza soluzione di continuità il flusso della realtà esterna, scandagliano il subconscio del ragazzo alle soggettive di Masha nel bosco di betulle). Non si tratta qui di fare a meno della realtà (ché anzi il film è fatto anche di rumori, di corpi, di voci) e neppure di voler rifugiarsi in vuoti e pretenziosi formalismi (c'è sempre, anzi, la sensazione della necessità stilistica di una data inquadratura, anche quando, magari nel bel mezzo di un colloquio, la macchina da presa si sofferma a perlustrare, con gli occhi di Ivan, ogni piccola macchia del soffitto). Le accuse di estetismo e di calligrafismo rivolte a L'infanzia di Ivan sono a mio avviso il frutto di un malinteso senso del cinema (un certo film è bello se è in sintonia con l'ideologia critica dominante, è brutto se se ne allontana, indipendentemente dal suo intrinseco valore artistico). Ciò che è invece sfuggito a molta gente di cinema è la portata straordinariamente innovativa di quest'opera prima, la quale contiene già, sia nello stile (i meticolosi movimenti della cinepresa, i carrelli all'indietro, le panoramiche e le gru reinventano continuamente l'ambiente filmico, creando complesse relazioni spaziali tra i personaggi, elaborati effetti a scoprire, dinamiche campo-fuori campo mai ovvie e gratuite, o semplicemente angolazioni di ripresa originali e inattese) sia nella simbologia (l'acqua soprattutto, come nella meravigliosa scena del secondo sogno o nell'immagine catartica del secchio pieno d'acqua in cui bagnarsi il viso o nella corsa finale in riva al fiume, ma anche i cavalli, simbolo di libertà e di rigenerazione, la neve, segno del passaggio da un ciclo vitale a un altro, la campana, ecc.), contiene già, dicevamo, i motivi dominanti dei più celebrati capolavori tarkovskijani (le affinità con Andrej Rublev sono addirittura impressionanti). I difetti del film stanno semmai nella caratterizzazione un po' troppo schematica di qualche personaggio (il tenente e Katazanov, ad esempio) e in una struttura narrativa a tratti debole e convenzionale (soprattutto quando non è di scena il piccolo Ivan), ma si tratta di limiti di poco conto, per lo più inevitabili nella situazione produttiva del cinema sovietico degli anni '60, e in ogni caso ampiamente riscattati dalla emozionante dimensione lirica (nell'accezione più sincera del termine) dell'insieme.
Dal punto di vista tematico, più che la novità del soggetto, colpisce il modo antiretorico e antipropagandistico in cui Tarkovskij racconta la guerra. Non solo sono assenti le rappresentazioni dirette di combattimenti, di azioni spettacolari, di morti drammatiche sul campo di battaglia, ma latitano anche gli eroi: al loro posto ci sono solo uomini sfiduciati, confusi, privi tanto di valori morali quanto di sicurezze materiali. In mezzo a loro c'è il dodicenne Ivan, che la guerra ha costretto a diventare grande troppo in fretta, soffocando i suoi legittimi e naturali istinti infantili. Solo nei sogni emerge il suo incomprimibile bisogno di essere ancora bambino, la sua tenerezza, la nostalgia della madre, ma la brutalità della realtà non lo risparmia neppure lì, trasformando le dolci visioni e i protettivi ricordi in incubi terrificanti. L'infanzia perduta di Ivan, anzi dei tanti Ivan di tutto il mondo e di tutte le epoche, invecchiati precocemente e morti (in un lager o in un ghetto) senza essere in grado di capire il perché, è (non diversamente dal suicidio del protagonista di Germania anno zero) un'infamia che nessun perdono umano potrà mai cancellare, un silenzioso grido di dolore lanciato nella Storia (senza sentimentalismi, eppure capace ugualmente di commuovere) a imperitura condanna della guerra, di tutte le guerre. Ma, nonostante tutto, Tarkovskij intende lasciare aperto uno spiraglio di speranza ("Bisogna pensare al futuro" dice a un certo punto, ottimisticamente, il giovane tenente). Con un procedimento esattamente contrario a quello con cui, all'inizio del film, il sogno idilliaco di Ivan era stato fatto trasfigurare nelle immagini luttuose dei campi devastati dalle bombe, così ora dalla terribile immagine del bambino che penzola a testa in giù nella stanza della morte si passa definitivamente alla amata figura materna, ai gioiosi giochi infantili, alle corse a perdifiato nell'acqua, con quel piccolo braccio ostinatamente alzato nell'aria che vuole essere al tempo stesso un'invocazione di aiuto e un atto di fede nella vita.