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IL CACCIATORE regia di Michael Cimino

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kafka62     9½ / 10  03/03/2018 15:23:20Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Ho sempre ritenuto fondamentalmente sbagliato che una recensione cinematografica potesse essere negativamente condizionata da elementi non strettamente cinematografici, quali l'ideologia o la morale. Tanti anni di ottusa e sciagurata critica marxista e cattolica hanno contribuito a rafforzare ulteriormente in me questa convinzione, fino a renderla sacra e inviolabile. Ciononostante, parlando de "Il cacciatore", credo che non sia possibile fare a meno di distinguere il côté ideologico da quello puramente estetico o emozionale. Sotto il primo punto di vista, l'opera di Cimino si rivela oltremodo equivoca ed ambigua. Il regista fa infatti un film sulla "sporca guerra" (e per di più un film importante, destinato – per l'approccio autoriale, per il cast all stars, per i mezzi finanziari profusi – a lasciare un segno indelebile sulla storia del cinema più recente) senza preoccuparsi minimamente di indagare quali siano state le responsabilità storiche e politiche del conflitto. Per Cimino, cineasta epico, affascinato dal tema hemingwayano del destino e della grande prova, il Vietnam è prima di tutto una fatalità che incombe su una generazione ignara ed innocente e fa assumere al film, fin dalla lunga sequenza della festa (l'arrivo del sergente dei marines, le gocce di liquore che cadono sul vestito della sposa), i connotati di una tragedia di stampo classico. Mentre Coppola, nel suo coevo "Apocalypse now", descrive una guerra astratta, dalle connotazioni psicanalitiche e mitopoietiche, Cimino ne fa la proiezione di una lotta prometeica dell'uomo contro il fato, ingiusta e deplorevole quanto si vuole, ma sostanzialmente al di fuori del suo controllo. Facendo ciò, egli non mette mai in discussione l'America, ma al contrario fa intonare alla fine del film un "God bless America" collettivo e purificatore, che sembra lavare le coscienze da ogni possibile senso di colpa. Il male, se c'è, non sta nell'aver voluto impegnarsi in una guerra sbagliata, ma è qualcosa di ontologico, di inevitabile, oppure è lontano, incistato laggiù, in quella Saigon o in quelle giungle orientali che assomigliano tanto a dei gironi danteschi. Non sorprende quindi che Cimino, con una ardita forzatura simbolica, riduca l'orrore della guerra al gioco stupido e perverso della roulette russa. Si tratta di una scelta opinabile, discutibile e ambigua, ma a ben vedere coerente per chi della guerra non sa che vedere un solo aspetto, una sola dimensione, quella di una generazione che, pur mutilata nella carne e nello spirito, rimane incapace di (o non vuole) capire il significato ultimo degli eventi. Cimino è un regista sincero, le sue emozioni sono autentiche, ma il dramma dei suoi personaggi è inevitabilmente quello di un melò revisionato in chiave moderna (similmente a film come "Il grande freddo", in cui un atteggiamento vagamente liberal tradisce una nostalgia inconfondibilmente conservatrice). Non solo, ma "Il cacciatore" ha un altro grave torto da farsi perdonare, quello di essere stato l'involontario precursore di tanti film destrorsi e revanchisti (alla Chuck Norris o alla Rambo, tanto per intenderci), che hanno giudicato il Vietnam solo nell'ottica di in affronto subìto, da vendicare ad ogni costo.
Considerandolo da un punto di vista meno ristretto, "Il cacciatore" è però un grande, anzi un grandissimo film. Maestoso e fluente come una pellicola di King Vidor, delicato e romantico come un melò di Borzage, cruento e parossistico come un western di Peckinpah, il film alterna uno sguardo distaccato, quasi documentaristico (l'arrivo di Mike a Saigon), a tratti addirittura antropologico (la festa della comunità russa), ad una visione che esalta invece, enfatizzandoli e in qualche modo mitizzandoli, i tratti psicologici dei singoli personaggi, anche quelli secondari come lo Stan di John Cazale o il John di George Dzundza. Saga collettiva e drammi personali, grandi avvenimenti pubblici e piccole vicissitudini private, si succedono senza soluzione di continuità, con un respiro ora solenne ora intimistico, senza però che mai il regista rinunci a una dimensione dilatata e ipertrofica della narrazione. Il materiale filmico si viene a coagulare naturalmente intorno a pochi blocchi narrativi (le nozze di Steven, il Vietnam, il ritorno a casa di Mike), che rappresentano dei veri e propri film nel film (la lunghissima festa, quasi un'ora di magnifico cinema, o la sequenza della prigionia e della fuga dal campo vietcong), anche in virtù della predilezione di Cimino per la componente ritualistica (il matrimonio e il funerale, la caccia e la roulette russa, descritti con minuziosa meticolosità). Il vero problema è che Cimino stenta alquanto a legare in una forma narrativamente accettabile questi blocchi diegetici: come dimostrerà ancor di più ne "I cancelli del cielo", egli difetta di quella capacità, che è più di un organizzatore del dècoupage che di un montatore, di costruire organicamente e ritmicamente la vicenda. Così il film, ideologicamente manicheo, anche narrativamente risulta formato da rigide contrapposizioni: la cittadina di Clayton, le montagne della Pennsylvania e il Vietnam contengono sì delle lunghe e perfette sequenze, ma il passaggio dalle une alle altre risulta a volte brutale. Se in alcuni casi (ad esempio, il passaggio dalla battuta di caccia alla guerra del Vietnam, giustificato dal fulmineo precipitare dei personaggi nel vortice della guerra, proprio come in un incubo – non a caso, Mike si sveglia nella giungla nel pieno di un combattimento) questo montaggio appare accettabile, in altri casi invece l'antirealismo degli stacchi è decisamente irritante.
Nonostante i suoi innegabili difetti, "Il cacciatore" è un film vitale ed energico (ma anche sommesso ed elegiaco), ricco di suggestioni visive e, soprattutto, capace di catalizzare i sentimenti più estremi in scene dall'intensità emotiva talmente forte da risultare a volte quasi insostenibile: insomma, un film a suo modo memorabile. Gran parte del merito di questo exploit va ovviamente riconosciuto agli interpreti, tutti strepitosi: Robert De Niro, carismatico e protettivo, mai così bravo come nella sequenza della roulette russa nella capanna nordvietnamita (con quello sguardo freddo e determinato che si camuffa dietro un ghigno fintamente ebete e condiscendente); Meryl Streep, dolce e tormentata, davvero deliziosa e non ancora rovinata dall'istrionismo della grande attrice; Christopher Walken, perfetto nel rappresentare l'irreversibile caduta di Nick nella follia catatonica e autodistruttiva; e ancora John Cazale, di gran lunga il miglior caratterista americano degli anni settanta.