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BASTARDI SENZA GLORIA regia di Quentin Tarantino

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jack_torrence     9 / 10  25/01/2011 20:30:06Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"Bastardi senza gloria" è il miglior film di Tarantino dai tempi di quel terremoto che fu "Pulp fiction".
Piace o non piace - e spesso colui a cui non piace è "costretto" ad ammettere che il geniaccio dietro la macchina da presa ci sa fare, "però è solo forma".
Sarà solo forma, ma l'arte non è poi anche questo? Dove sta scritto che la grande arte figurativa dev'essere necessariamente dotata di profondi contenuti?
"Bastardi senza gloria" è una festa per chi ama il cinema e sa apprezzare il talento libero e sfacciato di Quentin, che qui è sfrenato.
"Bastardi senza gloria" sa essere divertente, irriverente (verso gli americani), mastica luoghi comuni e li reinventa spostandoli o deformandoli, a volte fa venire in mente le gioconde baffute dei dadaisti (mi pare fossero i dadaisti, in origine).

Quentin è fedele a una poetica semplice semplice per la quale sfiora la monotonia: la vendetta al femminile (ma qui assieme alla ragazza ebrea abbiamo anche il ragazzo nero).
Ma se lui scherza con tutto al punto di far catarticamente esplodere la Storia dentro a una sala cinematografica, e farla andare diversamente (che è in fondo il punto più sovraesposto del film, da parte della critica), Quentin prende tremendamente sul serio il suo lavoro. Sa il fatto suo: basti pensare a come gestisce l'andamento delle varie parti, frustrando sistematicamente il successo dei piani di coloro per i quali siamo portati a parteggiare, inducendo con ciò lo spettatore a temere il peggio anche per quello conclusivo... Ragion per cui poi, la forza catartica del modo in cui va a finire risulta amplificata e più potente.

I dialoghi più lunghi di sempre: ma più il film lo si rivede, più quei dialoghi si conoscono, più è un piacere "sorbirli", e i loro tempi appaiono assolutamente giusti così. E anche questa è la magia del talentaccio.
amterme63  26/01/2011 23:14:02Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
“Sarà solo forma, ma l'arte non è poi anche questo? Dove sta scritto che la grande arte figurativa dev'essere necessariamente dotata di profondi contenuti?”

Sono d’accordo con quanto hai scritto, Stefano, solo se togli l’aggettivo “grande” dalla frase sopra. L’arte in sé può essere qualsiasi cosa ma la GRANDE arte deve essere la più completa possibile, deve coprire tutte le potenzialità che offre questo tipo di attività umana e quindi deve lasciare un marchio, un’impressione, un messaggio che venga compreso e apprezzato in tutte le epoche e in tutte le società.
Secondo me I film di Tarantino verranno visti fra 100 e 200 anni come una bizzarria che appartiene in tutto e per tutto a una certa epoca (tipo l’arte barocca), un’involontario specchio di come una certa società fosse arrivata a privilegiare il puro consumo di modelli formali di rappresentazione (per lo più stereotipati), rispetto ai suoi referenti reali.
Detto per inciso, secondo me l’arte per l’arte non esiste. L’arte sempre e comunque fa riferimento all’essere umano, alla sua emotività o alla sua razionalità e quindi assume necessariamente un significato nella nostra mente. Anche l’arte più astratta e astrusa, grazie ai referenti e alle corrispondenze psicologiche e culturali, esprime sempre qualcosa (tanti segni neri aggrovigliati esprimono angoscia, ansia – colori tenui, sfumati, distesi comunicano pace, armonia).
La forma è significato. L’assenza di un certo aspetto assume la stessa importanza della sua presenza e quindi occorre chiedersi la ragione e le conseguenze della sua assenza. L’arte quindi finisce per veicolare un sacco di messaggi impliciti soprattutto in rapporto al contesto in cui si esprime.
Tornando a Tarantino, sa “masticare, reinventare, spostare, deformare” i luoghi comuni ma rimangono oltremodo luoghi comuni e stereotipi. Anzi, secondo me, i modelli a cui si è ispirato sono infinitamente superiori. I film di genere anni 60-70 avevano una forte connotazione sociale ed esistenziale, dipingevano fra le pieghe dello spettacolo caratteri drammatici a forti tinte, situazioni sociali che facevano riflettere. Tarantino invece decontestualizza tutto e secondo me impoverisce irrimediabilmente. Lui è interessato solo al consumo del mito che si è creato intorno ai “luoghi comuni” del passato, allo scopo di formare un nuovo mito che inglobi la banalità, l’indifferenza e il cinismo dei tempi attuali (e quindi indirettamente nobilitandoli e li sdogandoli), una neo-intellettualità che si basi sulle forme del consumo, adeguata al tipo di conoscenza e di interesse culturale più diffuso fra i giovani degli inizi degli anni ’90.
In questo film i luoghi comuni sono quelli (fin troppo drammatici e dolorosi) della Seconda Guerra Mondiale. E qui, Stefano, si scherza con il fuoco. La scena finale si presta a tante interpretazioni. Non guardare che si parte dal presupposto che chi agisce rappresenta il “bene”. Così come viene rappresentato l’atto di auto-sacrificio è oltremodo ambiguo e visto con gli occhi di oggi finisce per fornire un’implicita “giustificazione” agli attentatori suicidi. Del resto tutti si credono di rappresentare il “bene”. Se lo può fare l’Americano, perché non lo può fare il Palestinese o il Ceceno? Tanto più che l’”irriverenza” del comportamento della squadraccia di Brad Pitt è trattata nel contesto del film come necessaria e doverosa, normale per un “eroe” di film, tale da far apparire le torture e l’uccisione con la mazza da baseball come una spiritosaggine splatter. Decisamente, secondo me, il trattamento stilistico formalistico, stereotipante, virtuosistico e banalizzate va bene per le storie di malavita o vendetta, ma stride tantissimo se applicato alla Storia (mia opinione personale ovviamente).
Scusa Stefano lo sfogo, non è una critica nei tuoi confronti. Rispetto il tuo punto di vista.
jack_torrence  27/01/2011 01:22:41Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Caro Luca,
anzitutto ti ringrazio per la stima e l'apprezzamento; è bello, davvero bello, poter scambiare e ricevere opinioni così interessanti sulla nostra passione comune. Ho appena letti tutti i tuoi commenti ai miei commenti dei 3 film di Tarantino, che sicuramente sono più stimolanti e interessanti dei miei commenti (sicuramente non tra i miei migliori: in essi mi sono limitato acriticamente a prendere una parte e dichiarare un mio gusto per Tarantino). Mi hai messo in difficoltà! Ma è una difficoltà fruttifera, feconda, ti ringrazio!
Tarantino sinora non l'avevo mai "studiato", ossia non l'avevo visto con occhio problematico: non è tra i miei registi più amati ma mi è sempre piaciuto in modo abbastanza irresistibile, e se nell'ormai quasi proverbiale (c'è un parallelo abbastanza noto di David Foster Wallace in un suo scritto del 1996 sul set di "Strade perdute" di Lynch, in cui coglie l'occasione per criticare Tarantino e cogliere le enormi differenze con Lynch). Dunque Tarantino rappresentava in qualche modo l'angoletto spensierato della mia cinefilia, nell'apprezzamento gustoso e irriflesso per quello che anche tu definisci un artista con l'A maiuscola.
Eppure tu mi fai rendere conto adesso di come i suoi film abbiano implicazioni non solo estetiche ma anche etiche, sociali, sociologiche, e possono essere presi come punto di partenza per studiare un certo snodo antropologico del gusto estetico di massa nella civiltà occidentale. Insomma, caspita!
E' tutto vero.
Hai ragione...
Sono spunti di enorme interesse quelli che lanci, e mi sento - al primo impatto - di accoglierli integralmente.
Sì, mi trovi d'accordo...
Non sono però ancora preparato a svalutare Tarantino, a smobilitare il modo in cui si innesta con tutto il resto della mia cinefilia... Insomma accetto le premesse di un revisionismo critico ma non ti assicuro gli esiti.
Sicuramente quello che tu fai è un rigoroso processo di analisi critica di qualcosa di cui, diffidendone in partenza con grande acume critico, contestualizzi in presa diretta il modo in cui si congiunge ai suoi tempi. Quando scrivi "tra 100 o 200 anni" è un modo di rovesciare il cannocchiale e guardare da ORA come se fossimo tra 200 anni: un esercizio impegnativo, affascinante, ma anche molto rigoroso, segno di un'intenzione analitica che vuole prescindere dal piacere della fruizione, dal gusto (o dis-gusto che sia).

Ciao,
Stefano

PS
hai davvero ragione, probabilmente, sulla necessità di espungere la parola "grande" dalla frase che hai estrapolato dal mio commento :)

jack_torrence  27/01/2011 01:41:13Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
C'è un anacoluto, quando apro la parentesi in cui menziono DF Wallace: prima della parentesi dico "ormai quasi proverbiale" ... e intendevo scrivere "confronto con Lynch".

Mi sono persuaso, anche in base alle mie limitate letture, che se Tarantino e Lynch rappresentano due modi assolutamente diversi di fare cinema, lontanissimi tra loro, siano i due registi americani più originali e significativi del cinema degli ultimi due decenni. Perlomeno - mi correggo - di quello che è insieme di massa e "sperimentale".

Hanno due modalità tipicamente post-moderne di lavorare, e (fermo restando che Lynch è il più complesso e il mio preferito, e dacché la penso così penso anche che sia il più importante dei due) mi riferisco alla base a quella alla quale a me piace riferirmi come "destrutturazione post-moderna" del racconto.
E' evidente, naturalmente anche troppo superficiale come analisi, ma a un punto di partenza critico molto elementare (e però giusto) rispetto al cinema di cui stiamo parlando, si nota in modo macroscopico come i due registi in questione, nelle loro opere narrativamente non lineari, partano da questa destrutturazione della materia.
In letteratura e anche nel cinema europeo non è una novità (in fondo e per esempio, un "Eraserhead" ha più punti di contatto con "Un chien andalou" di Bunuel del 1929 che non con "Pulp fiction"!!!): lo è però nel cinema americano, nella tradizione in cui sia Lynch sia Tarantino si collocano e nella cui prospettiva è giusto inquadrarli...