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DOGTOWN AND Z BOYS regia di Stacy Peralta

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Invia una mail all'autore del commento toxicangel     8 / 10  05/07/2005 12:27:00Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Dogtown non è solo un documentario che narra (esalta) le gesta di una dozzina di ragazzini californiani che nei primi anni '70 spendeva le proprie giornate bruciando nella passione (ossessione) del surf prima, dello skateboard poi.
Dogtown è un inno al talento, alla ferma intenzione di ridefinire i limiti delle 'cose' che stai facendo. Magari non sono 'cose' importanti, ma importante è l'atteggiamento che quei buoni a (quasi) nulla sfoderarono. La parola "atteggiamento" è frequente quanto i "fuck" e le congiunzioni. Questo film è un'incisiva dimostrazione di quanto conti l'atteggiamento e di cosa possa produrre. L'astrarsi dal resto del mondo concentrandosi su se stessi e sulle proprie capacità, dimostrando prima (forse solo) a se stessi di cosa si è capaci. Da questo punto di vista, che l'oggetto della ricerca sia lo skating o la pace nel mondo è un fatto del tutto secondario.
Come viene spiegato nel documentario, in quei tempi andare su uno skateboard non era certamente un'attività in voga, era piuttosto un'occupazione infantile o da s****ti, paragonabile a jojo e hula-hop.
Il sospetto che gli innovatori siano persone che se ne infischiano di cosa sia 's****to' e cosa non lo sia è forte, di certo la bassa e diffusa opinione sullo skating passò del tutto inosservata agli strafatti occhi di questo branco di ragazzini irrispettosi e sfacciati che con estrema naturalezza trasformarono l'innocuo gingillio di scolaretti innocenti in un'attività 'degna' dell'attenzione dei media e delle multinazionali dell'abbigliamento sportivo. Quel branco di irrispettosi e sfacciati teppistelli smise gli stracci degli emarginati e vestì quelli da star giovanili.
Atteggiamento, non tenacia. Talento, non competizione. Skating con gusto, non per ottusa autoimposizione. Skating per sviluppare un proprio stile, un proprio modo di stare al mondo, non per essere più bravo di quell'altro per di più osservando rigide e altrui regole. Vieni qui a misurare chi ha lo stile migliore, se ci riesci! Non ci riuscirai, potrai solo prendere atto che alcuni hanno uno stile, altri nemmeno quello.
Ribelli con una causa: disegnarsi i vestiti addosso, non farserli cucire da altri o indossare quelli preconfezionati.
C'è sicuramente autocompiacimento tra i protagonisti di questa storia, ma chi non lo sarebbe dopo aver stravolto la propria vita smettendo gli stracci dello zerbinotto di periferia per vestire quelli da star con un proprio pubblico, seppur di nicchia, che ti idolatra? Specie se tutto questo non è avvenuto con un colpo di bacchetta magica, bensì grazie alla tua creatività? Che botta di adrenalina hai quando applaudono un tuo bel colpo?
Certo, una riflessione un po' più critica su come si siano lasciati intruppare, fagocitare e sputacchiare dall'industria che seppero attrarre a sè, non avrebbe fatto male. Ma già così è abbastanza.
Una tavoletta su 4 ruote per alcuni, una questione di atteggiamento per altri.
Edo  05/07/2005 23:20:48Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Mmh... sbagli quando dici "atteggiamento", lo skate ( e non skating che é piú riferito alle pratiche di rollerblade) nasce come rabbia, come anticonformismo, che si deriva da un modo di imporsi, di essere, ma non di atteggiarsi: lo skate, come dici giustamente, era espressione, un mezzo per poter gridare la rabbia di ua societá storta cvhe vuole tutti big Jim e Barbi, che se non vesti la moda del momento di reietta nei sobborghi.
Ed é un pochino superficiale e limitativo quando dici "... Ribelli con una causa: disegbarsi i vestiti addosso, non farseli cucire da altri...", perché la causa non esiste, non si faceva (usi l´imperfetto peché sono finiti quei tempi, ora non cé piú quello spirito, anzi, ora c´é paradossalmente piú quello che tu hai definito nel tuo commento: l´atteggiamento) skate per chiedere e volere qualcosa (quelli sono altri movimenti), si skateva per rabbia, fregandosene delle regole della societá perché quella societá, che ti ha rifiutato, non te la senti appartenere.
Poi, come sempre, viene tutto il resto, chi ha naso per gli affari nasa, i nuovi movimenti... ma per fortuna alla fine dei giochi, il tutto é tornato nelle mani di quei ragazzi (Vedi Tony LAba e il grande Stacy Peralta).
Comunque, te lo dico essendo stato io, se mi permetti la similitudine, alla fine degli anni ´80 un "dogtawn" italiano..
Comuqnue, non volevo essere critico e polemico, fa piacere che il documentario ti sia piaciuto e tu lo abbia apprezzato molto, solo volevo farti riflettere piú sui temi veri, in modo magari da farti amare ancor di piú il tutto.
Ciao ciao
Invia una mail all'autore del commento toxicangel  06/07/2005 10:32:10Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Ho usato la parola "atteggiamento" perché gli stessi protagonisti ne parlavano ("attitude" è sempre nelle loro frasi) e poi perché è quella l'essenza della loro grandezza.
Atteggiamento come impostazione mentale, come filosofia, non certo come "posa" o come "vezzo".