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PALERMO SHOOTING regia di Wim Wenders

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Invia una mail all'autore del commento LukeMC67     9 / 10  06/08/2011 18:43:14Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Sarà che anch'io sono recentemente scampato da un frontale, sarà che da quando ho scoperto Wim Wenders nell'ormai lontano 1985, a 18 anni, con "Paris, Texas" e in cineforum successivi (grazie ai quali ho avuto accesso alle sue maggiori opere su grande schermo) non ho mai smesso di vibrare di fronte ai suoi film, sarà che lavoro nel settore..., insomma, la visione di "Palermo shooting" è stata per me anzitutto un'esperienza emotiva più che una semplice esperienza visiva. E forse mi rendo conto che questa sia l'unica chiave possibile per avvicinarsi ai film del grande regista tedesco (anzi, "europeo di origine tedesca", come lui tiene a definirsi). Quest'opera misconosciuta, ancorché recente, ha subìto tutte le stroncature possibili da parte di una critica e di un pubblico che ormai sa solo appassionarsi alle storie e non più alle atmosfere, alle immagini, alle riflessioni (le recenti polemiche su "The tree of life" ce lo dimostrano ampiamente). Men che meno che sappia appassionarsi alle sensazioni suscitate da un luogo, ciò che caratterizza da sempre il cinema di Wenders, e che lui rivendica fieramente in "A sense of place", suo interessantissimo saggio pubblicato nel 2005.

Anzitutto il titolo, un gioco di parole intraducibile che rimanda allo scattar fotografie e all'essere bersaglio di qualcuno (o al colpire qualcuno): già in esso è contenuta tutta la riflessione intensa che Wenders conduce con una visionarietà stupefacente sul senso della vita e, soprattutto, della morte.
E poi Palermo, raggiunta dal protagonista a partire da Düsseldorf (la città natale di Wenders) nel momento di massimo smarrimento professionale ed esistenziale della sua vita (nota di merito a un Campino -nome d'arte del rocker tedesco Andreas Frege, leader dei Die Toten Hosen- tanto bello quanto tormentato nella parte del fotografo professionista Finn Gilbert). Una Palermo lontana dai fasti angioini che irrompe sullo schermo con la cupa descrizione onirica della Cripta dei Cappuccini popolata di corpi mummificati e che è attraversata ed impregnata del senso e dalla presenza della Morte. Sì, perché il protestante, nordico Wenders è affascinato dalla cattolicissima ossessione per la Morte che pervade e permea la città siciliana, a partire da un misterioso quadro quattrocentesco in cui una trionfale morte a cavallo colpisce con eteree frecce tutti i potenti del tempo tra un popolo impaurito implorante la pietà del cavaliere; o meglio, del cavaliere-femmina (primo impatto traumatico per Finn, abituato a dare un genere maschile alla Morte). Sarà Flavia, una restauratrice incontrata per caso, italiana e presentatasi come"nordica" anch'essa (seppur sempre all'interno di un Paese irrimediabilmente cattolico, tanto da non vedere soluzioni di continuità in lei neanche quando scopriremo che è originaria di Giangi, paesino vicino Palermo), a poter fornire le chiavi di lettura giuste per la vita frenetica e dissoluta di Finn. Anzi, per risolvere definitivamente le sue ossessioni oniriche che ormai gli si materializzano senza controllo.

Finn è fotografo di moda, anzi, è un fotografo d'arte "prestato" alla moda che ormai ha assorbito tutto di quel mondo, in particolare la concezione estetica ed estetizzante che la caratterizza per antonomasia: le sue foto, dunque, si rivolgono solo all'apparenza delle cose, alla loro superficie. Questa concezione del proprio mestiere cozza però con le sue ossessioni notturne che riguardano il suo rapporto col tempo e con la sua fine. Il cortocircuito accadrà quando sfiorerà (e fotograferà) la Morte in un frontale evitato di misura e quando la sua modella preferita (Milla Jovovic, nella parte di se stessa), incinta, gli chiederà un book fotografico "intimista" proprio sulla sua gravidanza, delusa dalla perfetta mise-en-scène tutta glamour dell'ennesimo servizio di moda fotografato da Finn. E proprio la donna, confrontata al suo divenire madre, lo incalzerà facendogli notare che una nuova vita in divenire non può essere fotografata con la stessa perfezione estetica di un servizio di moda. Proprio Palermo, concentrato di Vita e Morte, di Eros e Thanatos, diverrà il luogo di questo nuovo book fotografico.
Ma la modella esce subito di scena: l'altra scelta che farà sarà quella di proteggere il nuovo venuto proprio dall'obiettivo avido e indiscreto di Finn abbandonando il lavoro e proibendogli ogni scatto al nuovo nato. Chi irrompe invece è Flavia (straordinaria, misuratissima e per questo intensissima Giovanna Mezzogiorno, tanto bella quanto brava), ragazza che con la Morte ha un rapporto di perdita altrui (ha perso sia l'amata madre che l'amato fidanzato e collega), e che a causa di questi eventi ormai "crede solo a quel che non si può vedere". L'esatto contrario dell'insoddisfatto esteta Finn che, nell'osservare il famoso quadro quattrocentesco insieme a Flavia, non manca di notare che il pittore -autoritrattosi- "guarda furbescamente in obiettivo"; sarà proprio la ragazza a fargli osservare che, più semplicemente, "guarda noi che lo guardiamo". In questo gioco di prospettive si compie il vero e proprio duello tra Finn e la Morte, materializzatasi in un uomo incappucciato dal saio grigio che scocca dardi ogni volta che Finn tenta di fotografarlo. Solo nel suggestivo finale, in un memorabile tête-à-tête da antologia del cinema, Finn finalmente incontrerà la Morte abbracciandola e accettandola come parte di se stesso e della vita. In questo incontro catartico, la Morte non mancherà di riflettere sul senso delle immagini che invadono il nostro mondo distraendoci da Essa invece di documentare meglio il Suo delicato e sempre crescente lavoro, nonché i Suoi infiniti volti. Quando la Morte gli si metterà in posa, però, Finn non riuscirà/vorrà più fotografarla ricevendo in cambio l'agognata, sospirata serenità che cercava invano (oltre ad un arrivederci per l'ultimo incontro). Una serenità che lo riapproprierà del suo tempo e della giusta attenzione verso l'altro/a da sé, incarnato da una Flavia che, stupìta di trovarlo di mattina ancora accanto dopo una sera di Eros, gli domanda semplicemente: "Tu?".

Ed è esattamente il rapporto col (proprio) tempo che ossessiona Wenders attraverso il suo protagonista (memorabili le visioni oniriche di Finn, a tal proposito), il quale si diverte a disseminare di metafore e di simboli ogni fotogramma della pellicola rendendola straordinariamente densa di rimandi e suggestioni. Ma proprio qui sta l'estrema ambiguità della pellicola stessa: Wenders, infatti, per criticare l'uso smodato dell'immagine estetizzante e superficiale (in particolare quella digitale) ricorre a un giovane (classe 1967) direttore della fotografia, Franz Lustig, che viene proprio dal mondo del videoclip e della pubblicità. Il film finisce per fare la figura di quelle opere che denunciano la violenza mettendo in scena proprio la violenza più efferata; analogamente, qui si ricorre in modo splendidamente barocco a una messa in scena tanto perfetta quanto costruita e lontana da quella realtà a cui Wenders raccomanda l'adesione e la riscoperta: se in "State of things" il protagonista è uno squattrinato regista cui tolgono i finanziamenti alla sua opera di fantascienza perfettamente programmata, in "Palermo shooting" il protagonista è, al contrario, un ricco fotografo pieno di mezzi il cui unico problema è che la realtà si sottrae inesorabilmente al suo obiettivo. Ma se in "State of things" la creazione di quell'opera fu effettivamente funestata da problemi produttivi, ricevendo però riconoscimenti unanimi alla sua uscita, "Palermo shooting" ha ricevuto tutti i sostegni materiali possibili ottenendo molte (troppe, a mio parere) stroncature proprio perché peccherebbe di quella perfezione che solo il ricreare la realtà artificialmente (in un set e con la manipolazione digitale, ampiamente utilizzata da Wenders per questa pellicola) permette.

Anche qui, però, ai critici è sfuggito che Wenders non mette in scena la realtà del luogo-Palermo, né tantomeno la realtà dei suoi personaggi e della storia (che pecca infatti di diffuse inverosimiglianze), bensì il suo stato d'animo interiore attraverso i propri personaggi; e in particolare lo stato d'animo che gli suscita il contatto col luogo-Palermo. E per farlo non può che ricorrere alle tecniche del suo modo di esprimersi, ruolo che egli avvolge di sacralità, estendendolo a tutti gli artisti, "che rendono possibile creare e suscitare sogni". Il ruolo della Morte, di ogni Essere Umano e di ogni Artista, infatti, è proprio quello di dar senso e memoria al nostro fugace esistere.

Nota di merito a parte va alle musiche che, come sempre, sono un vero e proprio marchio di fabbrica delle opere di Wenders: dai Velvet Underground (grandissimo il cameo di Lou Reed che appare in visione a un affranto Finn al suono di "Some kinda love", selezionato da un vecchio juke-box con i dischi a 45 giri) arrivando a De André passando per Patti Smith e tanti altri grandissimi artisti contemporanei. Come è stato giustamente scritto nella recensione, basterebbe chiudere gli occhi e seguire il flusso melodico di queste musiche per godersi "Palermo shooting"; ma senza l'esperienza visiva ci perderemmo qualcosa di ineguagliabile, un autentico orgasmo dell'anima.