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SOFFOCARE regia di Clark Gregg

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Invia una mail all'autore del commento pompiere     8 / 10  20/05/2009 18:56:39Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Quando si sono oltrepassati limiti dai quali sembra impossibile fare ritorno è necessario frugare nel nostro bagaglio di strazianti e perversi ricordi, finché non ne troviamo uno che ci permette di interrompere il circolo vizioso e conquistare la sobrietà. E il passato di Victor (perfettamente “traumatizzato” da un Sam Rockwell molto in parte) è nascosto nel rapporto con sua madre (un’Anjelica Huston gasata da giovane e sofferta nel ruolo senile, ricoverata in un Istituto Psichiatrico). Victor/Rockwell lavora come comparsa in un’oasi storica che ricostruisce ambienti e modi degli Stati Uniti del 1763: il capo del villaggio sembra che abbia inghiottito un dizionario dei sinonimi tanto parla forbito e arcaico (esilaranti le scene nelle quali Victor lo prende in giro).

Per Victor il superamento del limite sta in un sesso inteso come un perfetto e avvolgente “nulla”, dove il dolore è ricacciato indietro o non esiste. Ci si tuffa per sfuggire alla tristezza, alla solitudine, all’inadeguatezza. I suoi rapporti privilegiano solo donne sconosciute (e preferibilmente sono consumati nelle toilettes, durante gli incontri di gruppo per guarire dal “sesso-centrico”), in modo da tenere anestetizzati i sentimenti e la noia.

Il personaggio di Rockwell ha avuto un’infanzia marcata da una madre ultraprotettiva (che gli insegna perfino a riconoscere la tipologia degli allarmi annunciati via altoparlante nei luoghi pubblici, in modo da poter scappare e sopravvivere), la quale gli nega qualsiasi contatto con persone/bambini della sua età o con le cose più giocose/gioiose, come le giostre o i parchi di divertimento. Ma la testa di Victor gira lo stesso, il suo sguardo è malinconico e necessita di un modo per attirare l’attenzione. Il suo soffocare, nel fingere che il cibo gli è andato di traverso, è un vero morire a causa delle represse emozioni infantili. Gli atteggiamenti anticonformisti che la madre vorrebbe inculcargli, in realtà sono paranoici e ossessivi. Ormai il piccolo riesce a sorridere solo a comando.

La regia funziona decisamente bene per quanto riguarda i flashback (puntuali per come si sceglie di entrarvi, e da come si sceglie di uscirne), gli intermezzi sessuali (veri o immaginari), i primi piani (bellissimo il sorriso del bellissimo amico Danny, ammalato di masturbazione smodata) e qualche movimento di macchina in avvicinamento a svelare particolari rilevanti per la vicenda (la scena notturna allo zoo, alcuni “battibecchi” con le anziane del nosocomio).
Un saporito vaneggiamento religioso è al centro di una traccia narrativa, quando si pensa che Victor sia venuto al mondo grazie a un prepuzio benedetto (!): l’irriverenza è a portata di mano e si mette in mezzo una possibile esistenza di un secondo Messia. Clark Gregg, come regista esordiente, direi che è sicuramente da tenere d’occhio vista l’abilità con la quale mette in scena un testo bizzoso e irrazionale come quello di Chuck Palahniuk (lo scrittore di “Fight Club”) e lo scrupolo a cui ha dovuto attingere per una lavorazione lunga e tormentata.