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ALL THAT JAZZ - LO SPETTACOLO COMINCIA regia di Bob Fosse

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kafka62     6½ / 10  09/05/2018 13:45:18Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
E' nota la predilezione dei cineasti statunitensi per Federico Fellini. Artisti come Woody Allen e Paul Mazursky, per limitarci ai due casi più eclatanti, gli hanno reso un esplicito e rispettoso omaggio con "Stardust memories" e "Il mondo di Alex"; ma è forse Bob Fosse il regista che più di tutti sembra essersi ispirato all'immaginifica opera del Maestro. Se il suo esordio nel lungometraggio ("Sweet Charity") era infatti un remake in forma di musical de "Le notti di Cabiria", "All that jazz" si propone come un ambizioso tentativo di rifare "Otto e mezzo" nell'ambiente dello showbiz americano. Il film è molto diseguale e risulta soprattutto viziato da un eccesso di narcisismo, oltre che dalla presuntuosa convinzione che la messa in scena delle proprie ossessioni private sia di per sé sufficiente a compensare la mancanza di un valido ordito narrativo. Depurato dei vezzi cinefili, delle smanie esibizionistiche e dei barocchismi formali, "All that jazz" non è quindi niente di più di un prodotto luccicante e sfarzoso, ma abbastanza vuoto sotto la superficie. Non si può neppure dire che vi sia nella descrizione della vita sregolata e autodistruttiva di Joe Gideon, artista genialoide, ballista e puttaniere, un intento di critica nei confronti della falsità e della vacuità del mondo dello spettacolo, in quanto Bob Fosse, non diversamente dal suo alter ego, è in perfetta sintonia con quel mondo, lo ama, e non può fare a meno di esso. La logica del "the show must go on" non viene mai messa in discussione, al punto che il protagonista stesso, stanco e malato, si ritrova a pronunciare ogni mattina davanti allo specchio la frase "Si va in scena, signori", per trovare la forza di affrontare un'altra giornata. Prima di morire, poi, egli si immagina di dare l'addio all'esistenza con un concerto osannante ed autocelebrativo, in cui tutti i personaggi della sua vita sono presenti per rendergli omaggio, in un tripudio di scenografie kitsch, di musica rock, di luci abbaglianti e di sfrenata esaltazione divistica.
Pur opinabile sotto molti aspetti, la scelta di mettere in scena la propria vita (e perfino la propria morte) come uno show, è forse l'intuizione migliore di Fosse. Non si tratta tanto dell'aspirazione romantica e ottocentesca di fare della propria intera esistenza un'opera d'arte, quanto dell'autocompiaciuta voluttà del primattore di stare sempre sul proscenio, sotto i riflettori. Il singolare colloquio con la Morte, inscenato come un affascinante rituale di seduzione (a vestire i suoi panni è, insolitamente, una giovane e bellissima ragazza vestita di bianco) e ambientato in un luogo volutamente artificiale (tra specchi, luci azzurrognole e un décor da palcoscenico), non fa che rafforzare l'idea che la vita è una recita, è teatro, è finzione. La morte di Joe non ha quindi alcunché di realistico (e neppure di mitico), ma è semplicemente puro oggetto di consumo spettacolare, da rimuovere e dimenticare, come tale, non appena la rappresentazione ha avuto termine (non mi sembra un caso che Joe finisca, nell'ultima inquadratura, in un anonimo sacco di cellophane). E' un vero peccato che uno spunto tematico così gravido di potenziali sviluppi e riflessioni (anche extracinematografiche) venga poi banalizzato da un egocentrismo smisurato, estetizzante e pretenzioso. Fosse è un regista discreto (lo si vede soprattutto nel montaggio spezzettato e asincronico, che fa del film una sorta di lungo flashback onirico, e in alcune apprezzabili scene, come quella precedente l'attacco cardiaco in cui, durante una prova di lettura, vengono cancellati all'improvviso tutti i suoni dei presenti e rimangono in primo piano solo quelli di Joe – il rumore delle sue dita che tamburellano sul tavolo o della sigaretta che viene spenta sul portacenere -, isolati e in qualche modo ingigantiti dall'innaturale silenziosità delle facce che intorno a lui parlano o ridono), oltre che un abile coreografo (le sue composizioni spaziano, in maniera spesso assai pregevole, dal balletto classico alla danza moderna, dalle atmosfere espressioniste tipo "Cabaret" alla musica pop), ma il film in fin dei conti non riesce mai a eliminare del tutto il sospetto di essere stato girato in un delirio di narcisistica onnipotenza, senza delle autentiche motivazioni se non quella di esorcizzare l'idea della malattia e della morte (così si spiegherebbe l'autoironia necrofila del film, ribadita anche da quello sguaiato monologo del comico ripreso ossessivamente fino alle ultime sequenze).