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VICKY CRISTINA BARCELONA regia di Woody Allen

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Invia una mail all'autore del commento pompiere     7½ / 10  28/05/2010 17:45:00Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Allontanandosi dalla foschia e dai piovaschi dei drammi londinesi, Woody Allen approda agli splendidi climi estivi dell'Europa del Sud. Si lega alla città di Barcellona e alle opere di Gaudì, alla Fondazione Joan Mirò e a La Rambla, proponendo un interessante saggio sull'amore.
Se sulle prime, la sua sembra una sfrontata propaganda alla location (la capitale catalana è un vero e proprio museo a cielo aperto), dietro lo scenario sfavillante ripreso dal regista si nascondono altri significati.

Esiste qualcosa che va al di là della semplicistica rappresentazione delle ragazze americane alla scoperta della Spagna. Gli europei non sono poi così progrediti ed enigmatici per essere catalogati come affascinanti.
Quello che appare ricercato e carnale si rivela per qualcuno uno strumento per una migliore conoscenza di sè, un esperimento da provare per sondare i propri limiti e marcarne i confini, magari imparando a "vedere" meglio attraverso una macchina fotografica.
Nell'attuale "aridità" registica di Allen, "Vicky Cristina Barcelona" si rivela di buona compattezza concettuale e formale. Un'abluzione depurativa dai residui moralisti e pratici indotti dalle metropoli americane. Una scoperta di un'indole più disillusa e frugale.
Le stesse superfici irregolari e imprevedibili di Gaudì, insieme a una scenografia naturale e a un'urbanistica contraddistinti da un epicureismo effigiato da statue, case, dipinti, danno un che di incompleto (la Sagrada Familia) e divengono emblema di come solo un amore parziale diventi a suo modo poetico. Ci sono situazioni che non possono essere prestabilite, e a proposito dell'amore bisogna essere duttili.

A ridosso di questa considerazione c'è da accogliere l'ennesima rinascita creativa dell'artista Allen il quale ritrova un po' dell'abituale vivacità, ammesso che il regista fosse mai morto e nonostante sia stato a più riprese tacciato di indifferenza e fredda astrazione.
Un cicerone risoluto (suo alter ego?) lo troviamo nel narratore che, con la voce off, cura e sveltisce la cadenza del racconto, evidenziando le molteplici trame affini e sdoppiate in stile "Melinda e Melinda", sempre fondate su Amore e Destino.

C'è sempre qualcuno che scrive poesie mai pubblicate, che realizza cortometraggi sulla precarietà dell'amore e che priva il pubblico del proprio operato per rabbia o sfiducia. Qualcun altro scrive una tesi sulla cultura catalana non conoscendone poi molto la realtà. Pare che l'antitesi tra arte e vita sia stata valicata: Allen si è dato pace e propone un'ipotesi di smentita alle furiose e nevrotiche rappresentazioni dell'arte come modus vivendi e unico elemento di realizzazione.
Insieme alle suggestioni letterarie di Edith Wharton, il film mostra l'influsso di prototipi cinematografici che vanno da Almodovar a Rohmer, da Renoir all'accuratezza e alla levità emozionale di certo Bergman. Perfino la musica per chitarra è dolce e commovente, e lo squisito tema musicale "Barcelona" è di una cantante italiana.
Woody annebbia finanche le scene di passione con un fuori fuoco slabbrato e riuscito, coadiuvato dalla fotografia di Javier Aguirresarobe (già apprezzato in "Parla con lei" e in "Mare dentro") che avvolge il resto della pellicola in un albore raggiante.

A un certo punto arriva (e questo sì che mi sembra un tentativo di sponsorizzazione "iberico") un'imbronciata, svalvolata, caotica ed ieratica Penelope Cruz che imita la Magnani (esiste qualcuno in grado di essere riconoscibile di per sè?) e fa un uso volutamente spropositato e discriminante di lingua spagnola. Il tutto diventa un po' più grossolano, insondabile, straniante, rarefatto. E l'interesse scema.
Il ruolo di Maria Elena/Penelope appare come forzato, a partire dalla professione di pittrice (un artista fra gli artisti) fino all'uso disinvolto di coltelli e pistole. Il cambio di prospettiva è una complicazione. E la variazione di tono tutt'altro che perfetta.