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PRIGIONE regia di Ingmar Bergman

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kafka62     7 / 10  20/01/2018 11:37:30Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Prigione è il primo film interamente ascrivibile a Bergman, ma non è affatto, come si potrebbe pensare, un Bergman minore. Vi si ritrova infatti l'intero, riconoscibilissimo universo spirituale del regista svedese, praticamente una summa anticipata di tutti quanti i suoi temi e le sue idee. Il film è una sorta di apologo morale, di comte philosophique, che formula una determinata tesi e la sviluppa lucidamente, geometricamente, come un teorema, prendendo come pretesto due storie qualsiasi, apparentemente banali, e portandole alle loro estreme conseguenze. La tesi è che "la terra è uguale all'inferno, e il dominio del diavolo è già una realtà", il postulato è che "Dio è morto, o è stato ridotto al silenzio". A sentenziare in siffatta maniera è l'inquietante figura di un vecchio professore, forse pazzo, che propone a un regista di realizzare un film sul diavolo: è un diavolo sui generis, che condannerebbe i creatori della bomba atomica come nemici dell'umanità, che si guarderebbe bene dall'ostacolare lo sviluppo di chiese e religioni, che cercherebbe di soddisfare i desideri più intimi e segreti degli uomini; un diavolo che si insedierebbe sulla terra in maniera quasi naturale e necessaria, lasciando le cose nel preciso ordine in cui sono, perché la terra è, in fondo, già essa stessa un inferno. A dimostrarlo sono le vicende parallele di Brigitte, una prostituta di diciassette anni che, dopo aver dato alla luce una bambina, è costretta dal fidanzato sfruttatore e dalla sorella senza scrupoli a farla morire; e di Thomas, uno scrittore in crisi che, abbandonato dalla moglie, affoga nell'alcool le proprie delusioni. I due si incontrano casualmente, si innamorano, leniscono reciprocamente le loro sofferenze, ma si tratta di un sogno di breve durata: la vita li riacciuffa nel suo vortice implacabile, e

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L'epilogo è di un pessimismo agghiacciante: in un mondo dove il male è diffuso come un cancro e dove non c'è più un interlocutore trascendente, un Dio in grado di dare una risposta agli angosciati interrogativi dell'umanità, non può esistere alcuna via d'uscita.
Se un difetto si può addebitare a questo Bergman trentenne è di aver voluto mettere troppa carne al fuoco: tematiche affascinanti che potrebbero, prese singolarmente, riempire un'intera pellicola si trovano qui affastellate l'una sull'altra, senza poter essere sfruttate in maniera adeguata. Inoltre la parte "teorica" del film è nettamente più interessante di quella "narrativa": le due storie parallele non riescono infatti ad essere sufficientemente emblematiche per reggere il peso di un messaggio così impegnativo, e sono per di più inserite in una sceneggiatura un po' macchinosa (risulta ad esempio poco convincente lo stratagemma – l'intervista giornalistica – escogitato per legare credibilmente la vicenda di Brigitte alla storia principale). Insomma, Prigione risulta essere un film fondamentalmente squilibrato: a momenti di fortissima suggestione visiva (la stupenda scena del sogno, ritmata dal suono di un carillon e ricchissima di motivi psicanalitici – la donna in lutto che dona a Brigitte il brillante, la bambola che galleggia nella vasca e che, nell'attimo in cui sta per essere sventrata, si trasforma in un pesce, la figura della madre seduta dietro una barriera di vetro -; certe sequenze di stampo espressionista, come la scena in cui, in mezzo alla nebbia, Peter e Brigitte incontrano Thomas o quella del suicidio nella cantina; la divertente proiezione, infine, di un film stile primo 900 nella soffitta piena di ricordi d'infanzia) fanno seguito altri momenti meno felici (non mi riferisco tanto alla tecnica registica, perché Bergman, pur alle prese con evidenti ristrettezze di budget, rivela già un suo stile abbastanza personale, soprattutto nei piani sequenza, quanto ai raccordi di montaggio approssimativi, a volte addirittura stridenti, e alla prova modesta di alcuni attori). Eppure Prigione, forse proprio per le sue stesse imperfezioni un po' naïf, si fa preferire a molti altri film della maturità del maestro svedese, di questo assai più celebrati ma anche meno ispirati e più di maniera.