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GOMORRA regia di Matteo Garrone

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amterme63     9 / 10  31/05/2008 16:14:15Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
“O sei con noi o sei contro di noi”

Non ho letto il libro di Saviano, né conosco bene le zone della camorra, in ogni caso me l’ero immaginata proprio come l’ho vista nel film. Per questo non mi ha meravigliato o scioccato. Ho sempre pensato che il sistema funzionasse ricercando il massimo del profitto senza avere il minimo scrupolo o fine etico che non sia il denaro e il potere. Garrone in questo caso si sofferma proprio su alcuni meccanismi di funzionamento della camorra, tali da farla diventare una piccola società a sé, riuscendo a ricoprire il ruolo di imprenditore (dà lavoro, stipendio e pensione), di forza dell’ordine (chi si affida a lei e paga, ottiene “tranquillità”), di assistenza sociale (procura o toglie gli alloggi) e di istruzione (fa scuola agli scugnizzi per farli diventare “uomini senza paura”). Inoltre si ammanta anche del “fascino” che viene dalla mitologia romantica del duro, del più forte (i due ragazzetti che vogliono diventare “boss”).
Al centro ci sono però i soldi e gli affari e la camorra sa come massimizzare i profitti. A tal fine tutti i mezzi sono leciti. E’ questo il segreto del suo successo: far funzionare il sistema economico capitalistico senza contrappesi di ordine morale. Si tratta di un sistema autosufficiente e Garrone ce l’ha voluto descrivere nella sua purezza senza confrontarlo con chi non partecipa a quel sistema (la società napoletana “pulita”). Non c’è quindi un giudizio di condanna a priori, anzi tra le pieghe viene fuori la grande forza, l’efficienza e il successo di questo sistema.
Se Garrone riesce a “smitizzare” la camorra, lo fa con i mezzi forniti dall’arte. Prima di tutto cerca di estraniare lo spettatore dalla storia e impedire l’identificazione con i personaggi. Infatti nel film non ci sono protagonisti ed è strutturato in più piani narrativi che si intrecciano fra di loro (si spezza continuamente la tensione). Si cerca di forzare lo spettatore a immaginare o a intuire il significato delle scene rappresentate evitando di dare spiegazioni (per molti questo è un difetto). Lo spettatore si deve “arrangiare” con la presa reale, la storia non viene “adattata” per spiegare meglio le parti in gioco. Distacco, estraniamento, crudo realismo fanno sì che non ci si “affezioni” e si guardi il tutto in maniera fredda e razionale.
Poi c’è la scelta stilistica di non abbellire quello che viene mostrato. La fotografia mostra zone degradate, campagne inquinate, spiagge anonime. La bruttezza è anche quella fisica della gente. La mdp sta appiccicata in primo piano su facce butterate, brufolose, meschine o dure. I neoarricchiti invece fanno di tutto per sfoggiare il benessere raggiunto e ne vengono fuori delle figure pacchiane, ridicole, tutte apparenza e volgarità. Gli altri invece devono essere assolutamente deferenti e ubbidienti, devono strisciare, devono leccare o umiliarsi, solo così possono sperare di sopravvivere (se però la loro la si può chiamare vita).
Non parliamo poi dei “sentimenti”: non esistono o meglio esistono solo dei legami (quello del sangue, quello del clan). Il resto, tipo l’amicizia o la solidarietà passano in secondo piano rispetto alla fedeltà alle regole ferree. E’ una vita tutta egoismo, durezza, materialità e apparenza allo stato puro. Insomma ce n’è abbastanza per disegnare un mondo efficiente ma che assomiglia tanto ad un girone infernale.
L’unica presa di distanza da un mondo del genere non può avvenire che su basi idealistiche, dentro la coscienza del singolo. E’ una questione di volontà, non di convenienza. Si tratta di credere o sperare in un mondo diverso, senz’altro imperfetto e meno efficiente, sicuramente con meno ricchezza individuale, ma che permette a tutti, anche ai più deboli, di vivere e di essere liberi senza strisciare per terra e leccare la scarpa al potente di turno. E’ una scelta che implica una certa dose di coraggio, cultura e educazione (una mentalità aperta). In conto va messa anche la sconfitta (il sarto) e il dileggio da parte dei “pratici” (Roberto, il simbolo della Napoli “sana”).

“Io non sono come voi, sono diverso”