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RIPRENDIMI regia di Anna Negri

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Invia una mail all'autore del commento pompiere     4 / 10  26/08/2009 18:11:51Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Nella primavera del 2007, due documentaristi decisero di girare un film sul precariato nel mondo dello spettacolo, seguendo un attore e la sua famiglia (mamma + bambino appena nato). Ma le cose andarono in modo diverso dal previsto… Ci voleva la produzione di Francesca Neri e Claudio Amendola per far vedere la luce a questo film di Anna Negri.

Quella che sembra una pellicola sul lavoro temporaneo e in bilico, vira ben presto sui legami affettivi, i quali paiono risentire (e come non potrebbero?) delle incerte condizioni lavorative. Insomma… uno, dopo un po’ che è precario nel lavoro, lo diventa pure nei rapporti sentimentali.
E’ per questo che Giovanni lascia Lucia e se ne va di casa. La regia, però, decidere di indugiare un po’ troppo e persiste a indagare e a curiosare su questa forma di rapporto, tanto che pare di assistere a una tipologia poco più che romanzata di love story un po’ anonima e scialbetta, una crisi di coppia da sbadiglio.
La retorica ci giunge a pacchi: “Dopo un figlio si perde il desiderio”, “Magari le vuoi bene ma come a una sorella o, peggio, come a una madre”, “Vedrai che è una cosa momentanea”, “No, no. Lo sapevo che sarebbe stato per sempre”. Federico Moccia, dove sei? Questi si fanno i dispetti e si mandano a fan**** come dei tredicenni. Aiuto!
Ma in Italia siamo davvero così indietro anche sulle storie da raccontare al cinema? Ci dovevamo arenare proprio su una novelletta di vecchi adolescenti presi tra gli squillini del cellulare e “amoreamoreamore” gridato ai quattro venti?

Si aggiunga un commento musicale lounge e jazz che vuole essere a tutti i costi accattivante, con una tromba ben in evidenza ad agevolare i momenti intimi fatti di baci, amplessi e piedi nudi ripresi allo specchio e l’occhio vitreo è assicurato.

Tra crisi d’isteria, vere come una moneta da 3 euro, e ridicolume a fiumi, Lui, Marco Foschi, si aggira per il set compassato ed espressivo come una polpetta senza uova e pangrattato. Sia che pianga, che rida, che faccia l’amore o che fumi una sigaretta, Lui sa impostare il pilota automatico solo sull’espressione del bel tenebroso, il piacione stereotipato, quello col sorriso da furbetto, la frangia spettinata e l’occhio vispo. A questo punto sorge spontanea un’idea sul perché ci sia davvero del precariato, no?
Il suono in presa diretta non contribuisce a valorizzare le interpretazioni, prodighe di toni che vorrebbero essere drammatici quando invece risultano piatti e vorrebbero essere simpatici ma appaiono giusto ruffiani.

Tra provini, montaggi, prove di regia con controcampi da aggiustare, la Negri si crede di essere Truffaut in “Effetto notte” (e per giunta un pisolino al buio riesce pure a indurlo).
Le telecamere digitali che seguono i personaggi, che forse vorrebbero creare tanto quell’effetto di cinema nel cinema o finto documentario, risultano alla lunga tediose, rappresentative di un cinema che vuole dipingersi per forza di cose come d’Autore ma che dovrebbe invece volare più basso, senza complicazioni visive inutili e fini a se’ stesse.
I cameraman (i quali risultano anche più simpatici e abbozzati meglio di Giovanni e Lucia) si scoprono, alla fine, come i veri precari e diventano essi stessi attori e protagonisti della storia, con le loro esclamazioni, i giudizi sugli accadimenti e le loro comparsate sullo sfondo, ripresi ora dalla vera regista, ora dal loro comprimario che gira il “documentario”. Nonostante l’espediente narrativo del “mockumentary” il film rimane freddo e inospitale.

Accostare le vicende quotidiane al vissuto cinematografico e teatrale praticato sui set, poi, non aiuta l’approfondimento sul precariato in un mondo che è molto più complicato di quanto non venga descritto dal film. E la pellicola, di per se’, non vale nemmeno come ipotetica risposta al precariato perché un prodotto così irritante e autoreferenziale non è la strada per uscirne. E’ un ibrido, oltretutto discontinuo.

E le interviste fuori dal film? Con lo sfondo bluastro dove gli attori danno il loro giudizio sullo spettacolo, sul lavoro nel settore, sulle insidie che possono colpire gli affetti… patetici prigionieri di un sogno infranto e anticipatori del finale che arriva dopo un inutile panegirico.
Il pistolotto illuminante della psicologa alla quale i due sposi si rivolgono lascia basiti: “Perché c’è la crescita zero? Perché siamo continuamente bombardati da immagini che ci propongono una felicità irraggiungibile”.

L’unica a risultare idonea a essere consacrata vera attrice è Alba Rohrwacher, una che recita anche con un semplice colpo di tosse, un sospiro, un urlo, un capello messo fuori posto e ciondolante davanti a un occhio. Una donna che imprime così tanta forza ed energia in quello che fa che vederla in questo guazzabuglio dispiace molto. Il suo talento risulta disperso e sprecato in un calderone costantemente sopra le righe.

“Riprendimi!” non è un film: è l’invocazione lanciata da un cinema italiano tradizionale che non c’è più e che invita quello presente a raggiungerlo. Ma l’impressione è che quest’ultimo si muova ancora troppo lentamente perché lo possa avvicinare. Adesso capisco pure il titolo originale, che era “Elettrocardiogramma”: perché non basta un defibrillatore per riprendersi.