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PICNIC AD HANGING ROCK regia di Peter Weir

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kafka62     9½ / 10  28/01/2018 17:38:20Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"La vita è sogno, soltanto sogno… il sogno di un sogno". Questo straordinario incipit, che sembra riecheggiare i versi de La tempesta shakespeariana, fissa con esemplare icasticità le coordinate critiche in cui si muove la poetica weiriana, sintesi di un discorso d'autore che, proprio partendo da Picnic ad Hanging Rock, si è sviluppato per ben sette lustri, tra alti e bassi, conferme e mezzi passi falsi, ma sempre con innegabile coerenza, fino ai nostri giorni. E' la predilezione delle atmosfere meta-realistiche, al confine con la magia e il paranormale, la fascinazione per l'insolito, la curiosità verso il territorio inesplorato dell'inconscio, a costituire il denominatore comune dei film di Peter Weir. E questo è vero anche per le opere in apparenza più attaccate alla realtà e a un preciso contesto storico-sociale: basti pensare alla onirica sequenza dello sbarco a Gallipoli, ritmata dall'Adagio di Albinoni, con la spessa nebbia ripresa a filo d'acqua e tagliata dai riflettori (ne Gli anni spezzati), o a quella, altrettanto suggestiva, della riunione notturna degli studenti-aspiranti poeti, con i profili incappucciati e le picole torce danzanti che si fanno strada nell'oscurità del bosco (ne L'attimo fuggente). In Picnic ad Hanging Rock tali elementi sono presenti in massimo grado, e da essi non è possibile prescindere nel momento in cui ci si voglia accingere all'esegesi tematico-stilistica del film, pur nella consapevolezza che questi stessi elementi vanno sovente a sollecitare zone di ricezione pre-razionali, non pienamente controllate dalle strutture del giudizio critico, rendendo così problematico il tentativo di riportare i termini dell'analisi nel loro territorio più confacente, quello dei criteri dell'estetica cinematografica. Basti pensare alla meravigliosa musica di Bruce Smeaton, suonata da uno strumento, il flauto di Pan, i cui vibrati creano un'atmosfera miracolosamente sospesa, trascendente e arcana, pervasa da un acuto senso di presagio, di qualcosa che sta per accadere, alla quale è impossibile non abbandonarsi con tutti quanti i sensi. Una volta colpiti dalle enigmatiche parole di Miranda citate in apertura e dalle note celestiali del flauto panico, siamo irrimediabilmente catturati dalla ricattatoria abilità del regista e condannati a subire fino in fondo l'ipnotico fascino del film. Quasi ci si dimentica che a monte di tutto ciò c'è un progetto lungamente elaborato, una sceneggiatura minuziosa, una costruzione tecnicamente molto complessa, e al termine delle due ore ci si sveglia come da un bellissimo sogno, penetrati da un sottile senso di nostalgia e di purezza perduta.
Se da qualche parte bisogna comunque partire per rendere "razionalmente" ragione di questo incanto, è giusto farlo muovendo dalla scenografia naturale del film, il bush australiano. La gialla pianura bruciata dal sole, su cui si erge come un inaccessibile baluardo Hanging Rock (è la prima immagine della pellicola, talmente immobile e sfingea da potersi scambiare per una stampa d'epoca) ingenera una inesprimibile sensazione di paura e di mistero, come se avessimo di fronte un santuario che non abbia mai svelato ad alcuno i suoi terribili segreti. E' una immagine mitica se si vuole, ma il mito è una categoria che ben si adatta a questo film. Poste così le premesse di un contrasto tra civiltà e natura, in Picnic ad Hanging Rock l'antitesi ovvia e indispensabile è rappresentata da un avamposto di quella stessa civiltà, il collegio Appleyard, altrettanto compatto e monolitico della roccia cui si contrappone. Se la natura è inspiegabile, inaccessibile, inclassificabile, il mondo del collegio è invece il regno dell'ordine, della pianificazione e della disciplina. Siamo al termine dell'era vittoriana, nell'anno 1900, ed è inevitabile che queste categorie assumano in tale contesto un carattere repressivo e castrante. Il film, che nel disegno ambientale e nel dipanarsi della storia rimane abbastanza fedele al romanzo di Joan Lindsay da cui è tratto (con poche importanti differenze che vedremo meglio in seguito), rende molto bene l'atmosfera oppressiva e soffocante del collegio attraverso alcuni accorgimenti tanto efficaci quanto poco appariscenti. Il primo è l'ossessionante ticchettio dell'orologio che risuona costantemente nello studio della signora Appleyard, simbolo di un mondo che della precisione pignola, degli orari da rispettare al minuto e della "cronometrabilità" dei ritmi di vita ha fatto i suoi capisaldi (non è certo un caso che Miranda, il personaggio centrale del film, non porti l'orologio perché non sopporta il suo ticchettio sopra il cuore, così come non è un caso che al cospetto della montagna tutti gli orologi smettano di funzionare); il secondo è l'uso di una illuminazione quasi totalmente artificiale negli interni dell'edificio, in contrapposizione con la solarità calda e luminosa degli spazi aperti (e qui vale la pena di sottolineare il ribaltamento della tradizionale dicotomia del cinema horror, buio-paura e luce-sicurezza, dal momento che Weir riesce nell'impresa di rappresentare il terrore attraverso meccanismi non visivi, semplicemente creando una suspense di tipo parapsicologico e badando a non rivelare la fonte dell'orrore).
Il sistematico soffocamento degli istinti (umani, sentimentali, artistici), che l'istituzione scolastica perpetra al discutibile fine di forgiare buoni e coscienziosi sudditi dell'Impero Britannico, si sintetizza nello scontro tra la sadica e malvagia direttrice e la piccola Sara, vittima sacrificale di quel sistema inumano. Weir non si preoccupa di evitare lo schematismo manicheo presente nel soggetto originale: ciò che gli interessa non è (o non è solo) l'oggettività sociologica di un confronto tra sistemi di vita e di cultura differenti, né tantomeno l'aspetto ideologico del contrasto tra Vecchio e Nuovo Mondo. Come il regista stesso ha dichiarato in un'intervista, "in genere, i libri australiani tendono a concentrarsi sul problema dell'identità nazionale, o sulla crisi degli europei che cercano di adattarsi ad un ambiente ostile (…), e io avrei potuto sottolineare il tema del collegio Appleyard come simbolo dell'Impero, degli invasori, del paesaggio estraneo, (…) ma sono tutte cose che non mi hanno mai interessato, sono tutti temi che ho perso per strada". Questi temi sono in realtà presenti in Picnic ad Hanging Rock (e non potrebbe essere altrimenti), ma Weir li astrattizza, li decontestualizza, subordinandoli a un suo personalissimo codice estetico. Egli può permettersi quindi di fare della signora Appleyard un mostro di cattiveria e di inumanità e di Sara il simbolo di tutte le ingiustizie subite dall'adolescenza, dal momento che il giudizio del film (a meno di letture affrettate e semplicistiche) non si gioca né sul terreno della verità storica né su quello della verosimiglianza psicologica. La precisa ricostruzione della vita del collegio, con le sue regole ferree e coercitive, è da questo punto di vista meno importante delle raffinatissime immagini (di un larvato e candido omoerotismo) delle ragazze che si scambiano i biglietti d'amore di San Valentino o attendono ai domestici riti di un romanticismo languido ed estenuato (i fiori disseccati che Sara conserva tra le pagine dei libri).
Weir è soprattutto un regista di atmosfere (anche se sa raccontare una storia con il piglio di un narratore esperto) e lo dimostra egregiamente nei primi minuti della pellicola: tutto quanto accadrà nel corso del film è già tutto scritto in quelle poche inquadrature, che introducono i personaggi principali, accennano fuggevolmente ai loro reciproci rapporti (e quindi adempiono a una importante funzione narrativa, grazie alla loro ellittica eleganza), ma soprattutto creano un pathos di conturbante bellezza e di impalpabile inquietudine, suggerendo l'esistenza, sotto l'epidermica e infantile eccitazione per l'imminente escursione, di pulsioni a stento soffocate e represse, pronte a fuoriuscire alla prima opportunità di sfogo. Weir dissemina di enigmatici ma inequivocabili segnali il tragitto che porta la carrozza a Hanging Rock: le parole con le quali l'insegnante di matematica, miss Mc Craw, descrive la nascita della roccia ("lava silicea, espulsa all'improvviso dalle viscere della terra, ed eruttata allo stato viscoso con estrema violenza"), la soddisfazione manifestata dalle ragazze nel togliersi i guanti una volta uscite dall'abitato, l'ubriacatura di alberi ed uccelli che accoglie la comitiva al loro arrivo (e che il regista restituisce con una splendida sovrimpressione sul viso estasiato di Miranda). In questa prima parte, magica ed ispirata, Weir trascende il romanzo della Lindsay per la grande qualità "cinematografica" del narrato. Non c'è un solo interstizio lasciato libero dal testo scritto in cui il regista non apponga la sua inconfondibile impronta d'autore: la descrizione del caldo inebriante del pomeriggio australiano, la pregevole resa pittorica del gruppo di ragazze riposanti sul prato, la soggiogante presenza dell'"altro" (che si manifesta in ripetute riprese delle pareti e dei pinnacoli di Hanging Rock, di cui la macchina da presa sembra accentuare l'irraggiungibilità). Tutto ciò contribuisce a dare al film un ritmo molto particolare, lento, avvolgente, privo di un vero scorrimento temporale.
Proprio l'aspetto a-cronologico, di viaggio al di fuori delle leggi fisiche del tempo e dello spazio ("Pensate – dice Marion – un milione d'anni tutti per noi"), dà alla scalata delle quattro ragazze un significato fortemente simbolico. Una volta intrapresa la salita sappiamo già che nulla potrà più essere come prima, perché l'immersione totale nella natura ha un valore di iniziazione, di ingresso in una nuova dimensione totalizzante ed esclusiva. E' importante osservare la direzione degli sguardi delle ragazze al cospetto di questo spettacolo privilegiato: mentre Miranda, Marion e Irma guardano in alto, inebriate dalla vista delle alte rocce vagamente antropomorfe, Edith continua ostinatamente a fissare il suo sguardo a terra, impedendo così a se stessa di accogliere la rivelazione. La divaricazione simbolica tra la dimensione orizzontale della micro-società del collegio e quella verticale della natura è assecondata visivamente da Weir con frequenti inquadrature dal basso verso l'alto (le quali hanno l'effetto di far apparire ancor più alte e inaccessibili le vette di Hanging Rock) e dall'alto verso il basso (le quali viceversa schiacciano i personaggi a terra e accentuano la sensazione di difficoltà della marcia).
Quando le ragazze giungono a una sorta di terrazzino di pietra che si apre sulla pianura sottostante, ha inizio quella che è forse la sequenza fondamentale di tutto il film. Davanti al viso in primo piano di Miranda che si volta in ralenti, gli occhi rivolti al cielo, scorre in direzione opposta il profilo inconfondibile della montagna: è il momento dell'estasi, dell'abbandono dionisiaco, della "presa di coscienza", a cui l'accompagnamento della musica di Smeaton dà, una volta ancora, un senso di ancestrale religiosità. La figura di Irma che danza scalza su una roccia si confonde, mediante un'altra sublime sovrimpressione, con i lineamenti botticelliani della compagna, e poi con l'ombra proiettata da lei stessa, simbolo, più che di uno sdoppiamento, di una smaterializzazione, di una perdita di consistenza della realtà. Le immagini raggiungono una densità filmica impressionante e perfino certi pensieri ad alta voce delle ragazze, che non si sa se dicano tutto o se siano solo delle banali ovvietà ("A volte penso che pochi esseri abbiano uno scopo, ma probabilmente uno scopo esiste per tutti. I disegni misteriosi…" dice Marion, e Miranda: "C'è un tempo e un luogo giusto perché qualsiasi cosa abbia principio e fine… Lassù!"), hanno un potere di risonanza interiore che sfiora la spiritualità. Al di là della loro importanza specifica ai fini dell'intreccio narrativo, queste immagini, queste parole, questi suoni (oltre al motivo suonato dal flauto di Pan, Weir ricorre a un emozionante tema dalle sonorità pinkfloydiane – ricordate A saucerful of secrets? – e a pezzi classici come i preludi di Bach o il secondo movimento del Concerto Imperatore di Beethoven) costituiscono il tessuto connettivo del film, veri e propri leit-motiv che ritornano costantemente (nel sogno di Michael, nei pensieri delle compagne sopravvissute) per riportarci (vano esorcismo) nel cuore irrisolto del mistero. Weir non dà l'impressione di voler mantenere sulla materia una adeguata distanza critica e, forse lui stesso estasiato da una simile perfezione e irripetibilità, non esita ad evocarli ripetutamente per prolungarne la magica atmosfera. La scena descritta prelude alla sparizione delle ragazze, inghiottite in un innaturale silenzio da una sorta di "buco nero", di slabbratura dell'universo, sbocco di una vitalità non più comprimibile e punto di fuga verso insospettate dimensioni oniriche (Miranda e le sue compagne erano cadute qualche attimo prima in balia di un invincibile assopimento).
Tra i tanti motivi simbolici intrecciati in queste sequenze, il più importante è probabilmente quello sessuale. Sadicamente repressa dalle rigide regole dell'istituto e più in generale dal bigotto perbenismo dell'epoca, che segrega le ragazze di buona famiglia in un mondo artificiale al riparo da ogni rapporto con l'altro sesso, la sessualità delle collegiali di Appleyard può manifestarsi ambiguamente solo attraverso una velata omosessualità. E' facile così capire come, sotto un sole "afrodisiaco" che accarezza la pelle e in mezzo a una natura voluttuosamente rigogliosa, una innocente gita scolastica possa divenire l'inconscio pretesto per una incontrollata ribellione dei sensi. Si sa del resto che in psicanalisi l'ascensione alpinistica (la conquista della vetta) è considerata un'attività in qualche modo sostitutiva di quella sessuale, oltre al fatto che le rupi di Hanging Rock sono impregnate di fin troppo evidenti significati fallici. Peccato solo che Weir non abbia intuito il potenziale simbolico-visivo di quella "nube rossa" scorta da Edith nella sua fuga dalla montagna (ricordate Buñuel e Un chien andalou?). La sequenza più significativa da questo particolarissimo punto di vista, oltre che una delle più suggestive in assoluto, è comunque quella della disinibita scoperta del corpo da parte delle ragazze che, con la sola eccezione di Edith, si tolgono calze e stivali (cosa inconcepibile fino a qualche minuto prima) e godono per la prima volta del naturalissimo contatto dei loro piedi con la nuda terra. Scalze si avviano verso il monolito (come fa chi si appresta a entrare in un tempio sacro) e scalza verrà ritrovata Irma qualche giorno dopo, ma senza neppure un graffio ai piedi (mentre le mani, le braccia e il volto presentano numerose ferite). Alla luce di queste considerazioni, non deve apparire neppure strano che miss McCraw sia vista correre verso la montagna con i soli indumenti intimi addosso e che il corsetto di Irma non venga più ritrovato, tanto chiara è la matrice freudiana di questi fatti.
Anche se i distributori italiani hanno avuto l'ignobile idea di sottotitolare il film Il lungo pomeriggio della morte, speculando così su un facile ma equivoco richiamo spettacolare, la morte appare qui la grande assente, se non come mera immagine metaforica. La morte – è vero – appare fuggevolmente (e pateticamente) nei manifesti della polizia a sancire la sua impotenza, la sua incapacità di concludere le ricerche e dare una spiegazione razionale al caso, e devasta il mondo "finito" del collegio (l'omicidio/suicidio di Sara: il film, a differenza del romanzo, non toglie tutti i dubbi su questo tragico epilogo), ma non intacca la Roccia, se si eccettua la morte fuori campo della signora Appleyard (già uscita di scena peraltro con l'ultima mortuaria inquadratura "in nero"). Se si può parlare di morte di un'epoca (il 1900 è l'anno in cui finisce il regno della regina Vittoria) o di morte di un'istituzione (il collegio) che all'inizio del film appare tetragonamente arroccata in difesa di valori ammuffiti e sorpassati, non si può però fare altrettanto con riferimento alla sorte di Miranda, di Marion e di miss McCraw. Weir è infatti abbastanza intelligente per assecondare l'ambigua elusività del libro (dove il narratore non è onnisciente ma si identifica con l'ignaro lettore) e lascia cadere nel vuoto qualsiasi tentativo di scioglimento razionale dell'intreccio, come il vecchio giardiniere che al giovane Tom che sostiene che una soluzione ci deve pur essere fa una bizzarra lezione di botanica sulle piante sensitive che crescono in Australia.
Henry James, il grande autore de Il giro di vite, sosteneva che "fino a che gli eventi sono nascosti, l'immaginazione correrà senza freni e dipingerà ogni sorta di orrori, ma, appena si solleva il velo, ogni mistero sparisce e con esso la sensazione di terrore". Weir si guarda bene dal sollevare il velo e dal mostrare l'irrazionale, ma il suo non è un semplice calcolo opportunistico mirante a garantire una suspense adeguata per tutto il film. Picnic ad Hanging Rock infatti si propone anche come originale riflessione del cinema su se stesso. Il cinema, in buona sostanza, non deve fornire a tutti i costi delle spiegazioni o rivelare dogmi assoluti, non deve in altre parole comportarsi come i soccorritori del film che battono palmo a palmo la montagna, illusi di poter risolvere scientificamente l'enigma, né soddisfare spettatori i quali, come le isteriche compagne di Irma o gli esasperati abitanti del villaggio, pretendano a viva voce di conoscere la verità. Nel secondo tempo appare fugacemente l'immagine di un uomo che scruta dentro un rudimentale apparecchio in legno che permette di isolare i dettagli dal contesto e di concentrarsi su quella piccola porzione di realtà. Egli non fa che realizzare delle rudimentali inquadrature, è un regista ante litteram, ma uno di quei registi che limitano il più possibile il loro campo d'analisi nella ridicola pretesa di aderire maggiormente alla realtà. Weir al contrario cerca in tutti i modi di allargare l'inquadratura, di espandere la visione al di là dei limiti tradizionali imposti dai campi e dai piani, di abbandonarsi all'intuizione e alla premonizione. In questo senso, Weir si identifica con Michael (il Dominic Guard di Messaggero d'amore, ancora una volta, come nel film di Losey, in qualche modo un intermediario): è questo caparbio ragazzo a salvare Irma, seguendo il richiamo di un dissennato presentimento, e a riuscire là dove centinaia di persone prima di lui avevano fallito; è lui l'eletto, il solo che, forte delle stimmate ricevute (la ferita sulla fronte che compare inesplicabilmente durante il sonno), è in grado di stabilire un contatto sia pur labile con l'infinito, anche se al prezzo dell'oblio. Il sogno è l'unico strumento di vera conoscenza a disposizione dell'uomo, l'unico mezzo per comunicare con l'"altro": prima di essere irresistibilmente attirate dal monolito, le ragazze si addormentano e probabilmente sognano; sogna sicuramente Michael ed è proprio la visione di Miranda a spingerlo freneticamente, una volta sveglio, alla ricerca; sogna infine Albert la sorellina morta (ma lui non lo sa) che viene a dargli un estremo saluto. Parafrasando le parole che aprono il film (e che non compaiono – è bene ricordarlo – nel romanzo della Lindsay), il cinema stesso è sogno e, siccome parla della vita, è il sogno di un sogno.
Weir non riuscirà mai più a uguagliare nelle sue pellicole successive (alcune delle quali peraltro molto valide) la forza visionaria e trascendente di Picnic ad Hanging Rock, quasi che gli fosse toccato in sorte lo stesso destino di Michael, vale a dire l'incapacità di ricordare, di ripetere una seconda volta la visione. Picnic ad Hanging Rock è un'opera incommensurabile, un esempio straordinario di quella originale concezione di cinema che ho cercato di esporre più sopra: è un film sostanzialmente anti-psicologico e anti-naturalistico, un film fatto di suggestioni, di emozioni impalpabili, di percezioni insolite, il tutto reso con un equilibrio e una raffinatezza che cristallizza nella perfezione, a tratti raggelata eppur internamente palpitante, della forma una materia incandescente. La caratteristica più significativa dello stile weiriano è probabilmente la sensibilità pittorica del regista. L'immobilità di molte inquadrature o il frequente ricorso al ralenti discendono direttamente dalla volontà di fissare per sempre certi istanti esemplari, certe immagini di plastica bellezza, come quando Weir all'inizio del film incornicia in un piccolo specchio ovale il volto di Miranda, quasi fosse una fotografia. E' un desiderio di fermare il tempo che lascia trasparire un senso di acuta nostalgia, di elegiaco rimpianto per le cose che stanno per finire (l'ultima gita in barca, le vacanze di Pasqua che divideranno per sempre le ragazze superstiti, la gita di San Valentino che ritorna un'ultima volta in fotogrammi di struggente leggiadria) e che fa intuire come Weir, paradossalmente, non sia affatto indifferente verso quell'epoca di cui pure vuol essere un critico severo.
La macchina da presa, sempre tesa a restituire il morbido e romantico flou dei dipinti fin de siècle, è prevalentemente immobile; nondimeno alcune lente panoramiche (quella delle collegiali sedute ai piedi di Hanging Rock, ognuna intenta alle proprie occupazioni, e soprattutto quella circolare che parte dalle ragazze in cammino sul sentiero e, dopo un suggestivo giro della cinepresa su se stessa di circa 270°, le riprende in un altro punto più elevato del sentiero medesimo) sono indimenticabili per la loro elaborata semplicità. E' proprio nella composizione interna delle inquadrature, nelle piccole correzioni dell'angolazione della macchina, nella trasparente perfezione della profondità di campo, nell'uso parco ma efficace del fuori campo, che si rivela il genio di Peter Weir. Per fare solo un paio di esempi, che rivelano entrambi un suggestivo effetto di spessore, di profondità dell'immagine, vorrei citare la scena in cui la macchina da presa collocata a livello del terreno riprende Miranda e Marion che sullo sfondo si avviano verso la roccia, mentre un attimo dopo, in primo piano, entrano nell'inquadratura i piedi di Irma; o quella in cui Mademoiselle, che si trova più vicina all'obiettivo rispetto a miss McCraw, rivela alla collega la somiglianza di Miranda al quadro di Botticelli.
La fotografia soffice e sfumata delle sequenze en plein air contrasta singolarmente con quella cupa e innaturale degli interni del collegio, a sottolineare un contrasto non solo ideologico ma anche cromatico tra i due luoghi scenici. I colori del resto sono molto importanti in Picnic ad Hanging Rock: ai vestiti scuri della signora Appleyard fanno da simbolico contraltare i bianchi abiti di mussola delle collegiali, il bianco dei cigni (e per sottolineare il parallelo tra Miranda e il cigno, la macchina da presa, soggettiva dello sguardo di Michael, scivola carezzevolmente da Irma all'uccello sul lago) e infine il bianco accecante, catartico, della dissolvenza conclusiva. C'è qui molto più di un esercizio di alto calligrafismo, qualcosa di profondamente diverso da una leziosa e oleografica rappresentazione ambientale, e non si capisce proprio come taluni critici non se ne siano accorti e si siano invece accaniti contro questo film, giungendo perfino a definirlo una "sciocchezzuola… stucchevole e pretenziosa che ambisce alla precisione delle foto d'epoca e attinge viceversa allo snervato flou dei poster da boutique di David Hamilton" ( Cineforum, n° 2/1977). C'è al contrario in Picnic ad Hanging Rock un respiro prepotentemente personale, che non si può ricondurre semplicisticamente a generiche influenze loseyane o del free cinema in generale (nonostante le citazioni viventi rappresentate dall'ex go-between Dominic Guard e da Rachel Roberts, non dimenticata attrice in Sabato sera, domenica mattina, Io sono un campione e altri film britannici degli anni '60). L'importanza attribuita agli aspetti formali, l'originale equilibrio degli elementi spazio-temporali, la cura minuziosa per la perfezione dell'inquadratura, sono lontanissimi dall'oleografia e dal manierismo. Al contrario, se è vero come sostenevano i registi della nouvelle vague che "ogni inquadratura è una questione di morale", allora Picnic ad Hanging Rock è sicuramente uno dei film "moralmente" più ricchi e profondi della storia del cinema.
fedewarrior  12/06/2020 23:28:15Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
i miei complimenti, recensione-capolavoro