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PERCHE' IL PROFESSOR R. E' DIVENTATO MATTO? regia di Rainer Werner Fassbinder, Michael Fengler

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Weltanschauung     9 / 10  23/05/2012 14:34:56Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
*Presenza di Spolier

Germania, fine degli anni '60: le industrie sono in netta ripresa, la piccola e media borghesia tedesca si rafforza sempre più ed avanza indisturbata, la sconfitta della guerra è oramai alle spalle, la società si avvia verso una progressiva finanziarizzazione, speculazioni e corruzione divengono fenomeni integranti del processo di ricostruzione tedesco, iniziato a metà degli anni Cinquanta.

Fassbinder ed altri registi coetanei, tra cui Werner Herzog e Wim Wenders, intuitivamente consapevoli di ciò che stava accadendo, diventano inevitabilmente i protagonisti di una critica radicale al modello capitalista. Un archetipo che opera in un rovesciamento di prospettiva copernicana, in un'epoca in cui le leggi economiche prendono il sopravvento e non sono più subordinate alle esigenze e agli scopi della comunità.
E così nacque il cosiddetto "Nuovo Cinema Tedesco", gli autori citati iniziarono a produrre parecchi film a basso costo ispirati a Bunuel, Brecht e sulla scia della Nouvelle Vague francese.
In particolare, si distinse R.W.Fassbinder, che diede forma ai propri turbamenti esistenziali creando un personalissimo connubio tra il Kammerspielfilm, il Cinema Americano Classico e ovviamente il grande movimento cinematografico francese nato sul finire degli anni cinquanta capitanato da J.L.Godard. Vari sono i film che mostrano il punto di vista dell' autore sulla storia tedesca e, in particolare, sulla ricostruzione operata nella Germania Federale, quella Germania colpevole del Nazismo che ha voluto però cogliere solo gli aspetti 'americani' dello scenario post 1945, fino a diventare succube del profitto fine a se stesso.

Al 1968 risale una tra le sue primissime opere di grande spessore, ovvero "Warum lauft Herr R. Amok?". Una semplice cronistoria che ritrae l'anemica vita quotidiana del signor Raab, un professionista con un lavoro dignitoso, una bella moglie ed un figlio come tanti.
Un uomo normale insomma, distaccato e senza particolari eccessi, lavora, accompagna sporadicamente la moglie a far compere o a visitare le amiche, passa le serate in casa con la famiglia guardando la televisione, esce con i colleghi, cerca di fare carriera, aiuta il figlio a fare i compiti e va a parlare con la sua insegnante.
Le sue relazioni sono piatte, senza slanci ed affetti ed egli non fa altro che galleggiare in questo suo finto equilibrio partecipando da spettatore alle cene che la moglie organizza durante il weekend.
Raab pian piano diventa sempre più apatico, inerte, demotivato, fiacco e quasi incapace di comunicare, ripetendo sempre gli stessi gesti meccanizzati. Un'unica scintilla vitale la sprigiona quando un amico di vecchia data va a trovarlo ed insieme rievocano, impavidi, la loro infanzia tra gli sguardi perplessi della moglie.

Un giorno, durante una banale conversazione della consorte con la vicina di casa, il signor R. prende un candelabro e con un colpo alla testa uccide prima la vicina, e poi la moglie ed il figlio. Il tutto con la solita imperturbabilità.
Il mattino dopo va al lavoro, ma invece di recarsi alla sua postazione si chiude in bagno e si impicca.
Le motivazioni sono troppo chiare per essere spiegate: la sua non è né ribellione né follia, ma solamente la presa di coscienza di un contesto che reprime ogni impulso spontaneo e regolamenta ogni fase dell'esistenza, in un programma di annichilimento graduale dell'individuo.

Con un impianto semi-documetaristico il primo film a colori di Fassbinder, codiretto insieme a Michael Fengler, è una storia cruda di una pseudonormalità atroce.
Un'agghiacciante e indimenticabile affresco delle modalità oppressive della società borghese occidentale in cui viene mostrata la loro azione avvolgente e dannosa sulla tenuta razionale ed inconscia della psiche.

La regia del cineasta tedesco trasuda assoluta impersonalità nel fotografare lo squallore dell'ordinarietà che attraversa la vita di tutti i giorni di un mesto impiegato industriale. E' volutamente sgraziata ed approssimativa, ogni sequenza è difatti risolta con un'unica ripresa a mano che passa da un personaggio all'altro tra luci naturali tendenti a colori smorti, che accentuano così il senso di claustrofobia.
La vacuità e il decorativismo che descrivono il suo stile di vita sono continuamente amplificati dall'ambiente in cui il personaggio vive e si muove e dagli oggetti di cui si circonda. Egli sguazza nell'anonimato, solissimo in questa festa degli oggetti, che a loro volta sono impotenti nel dare un senso alla sua vita.

Gli attori si muovono in modo schematico scontrandosi, con il naturalismo della scenografia da un lato e con quello della corrosiva dialettica dall'altro.

Raab, assoggettato indissolubilmente ad abitudini e regole conferite, è incapace di formulare i termini di una rivolta, di un riscatto qualsiasi nei confronti della società; più percepisce di essere defraudato e più si inaspriscono in lui bramosie ed illusioni.
Coglie la volgarità nell'esprimere dogmi ed idee in un'epoca estenuata in cui ogni sogno di avvenire sembra delirio o impostura. In lui vi è l'assenza di qualsiasi sentimento che non sia insofferenza verso se stesso, in uno scivolamento lento e inesorabile, in uno stato di insensibilità in cui non pare esserci via d'uscita.
Il protagonista sembra così aderire a un destino tragico e cosmico, ma in realtà è la condizione umana che pare predestinata alla sofferenza, già inscritta nel microcosmo dei fallimenti amorosi di ordinaria quotidianità.
Le relazioni amorose sono rappresentate come esempi lampanti di rapporti di produzione fatti di convenienze forzate e incomunicabilità.

Fassbinder sembra volerci trasmettere l'impotenza di coloro che colgono la decadenza, che non riescono a combatterla, ma neppure ad incoraggiarla facendola sviluppare in modo che si esaurisca, permettendone l'avvento di altre forme.
D'altronde, a torto, ci immaginiamo la figura del Signor R. come qualcuno che abdica, si ritira e si tiene in disparte rassegnato alle sue miserie e alla sua condizione di relitto, ma se lo osserviamo bene scopriremo in lui un ambizioso, un deluso, un aggressivo, un amareggiato ed i suoi incubi sono sempre connessi ad una matrice culturale borghese, ad un sadico gioco al massacro che trascinando l'altro nel baratro è in realtà prima di tutto un suicidio.

Il Dogma di Lars Von Trier e Thomas Vinterberg ed il cinema di Michael Haneke sono già tutti qui dentro.

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