caratteri piccoli caratteri medi caratteri grandi Chiudi finestra

PER UN PUGNO DI DOLLARI regia di Sergio Leone

Nascondi tutte le risposte
Visualizza tutte le risposte
Godbluff2     8½ / 10  05/11/2022 21:42:10Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Il western è IL genere cinematografico "autoctono" americano per eccellenza, la loro personale narrazione epica della propria storia, delle loro radici culturali. Centrale nei meccanismi hollywoodiani fin dal principio, è diventato "maturo" alla fine degli anni '30 quando John Ford ne delineò definitivamente gli archetipi e le caratteristiche principali che saranno alla base del periodo classico del genere; una lettura epica della frontiera americana della seconda metà del XIX secolo chiaramente molto parziale e mitizzata, la storia scritta dall'ipocrisia dei vincitori, ma che già nel corso degli anni '50 grazie a vari registi aveva affrontato una corrente di rinnovamento e rilettura in chiave più moderna e complessa di quell'epica.
Tuttavia il terremoto, la vera e più grande rivoluzione del genere americano per eccellenza non partì dal cinema americano; esplose invece in Italia, con un regista romano dal budget limitato che per contenere i costi girava gli esterni in una Spagna il più verosimilmente possibile affine ai selvaggi e ampi territori dell'ovest nord-americano e che fu ispirato da un film su un samurai di un regista giapponese che a sua volta possedeva ben salda nel suo bagaglio culturale di ispirazioni la lezione del classico cinema western fordiano. Il regista romano, per riuscire a vendere meglio il suo film, cercò anche di spacciarlo per produzione americana, perché a chi diavolo sarebbe importato un film sull'epica di frontiera americana girato da un italiano e usarono, lui e altri italiani coinvolti in vari ruoli del film, pseudonimi anglofoni, oltre ad utilizzare un protagonista americano e poi una mescolanza di attori italiani, spagnoli, sudamericani e tedesco-austriaci nei panni di personaggi messicani.
Belle premesse, no ? Ecco, questo "film di genere", girato a basso costo, con mezzi a dir poco scarni e visto all'epoca come nient'altro che un B-Movie ha sconvolto e ricostruito dalle fondamenta il cinema dell'epica americana, ha cambiato tutto, senza la possibilità di tornare indietro.
Naturalmente il cambiamento che Sergio Leone inizia con questo film si cementa col tempo, lungo tutti gli anni '60, nell'immediato proprio grazie ai due film successivi dello stesso Leone, che completano la "Trilogia del Dollaro", fino a diventare ormai il nuovo standard del western per tutti gli anni '70, sempre colorato poi da personalizzazioni, sperimentazioni e nuovi piccoli rinnovamenti diversi da regista a regista, da film a film, con lo stesso cinema di Leone che a cavallo dei due decenni continuava ad evolvere, mutare e maturare all'interno della medesima dicitura "Western".
"Per un pugno di dollari" che fu il Big-Bang del cambiamento e i suoi due più maturi successori ebbero tale successo e impatto culturale da espandere la loro rilettura del western nel territorio italiano ed europeo e, ben presto, l'eco dello "spaghetti western" riecheggiò fino alla madrepatria del genere, Hollywood, in quegli anni già in una fase di profondo rinnovamento generale, invasa da nuove generazioni di autori e cineasti, contribuendo così, insieme ad altri fattori, ad una netta e profonda rivisitazione della "mitologia" dell'Ovest da parte dei registi americani degli anni '60 e '70, che in anni più o meno coevi-di poco successivi alla rivoluzione leoniana, trovarono modi personali e coraggiosamente anti-americani (ma da un certo punto di vista molto "americani" nell'ottica di una rivoluzione nazionale del genere) di rileggere più lucidamente e criticamente e ripensare da zero i topoi del western classico, i suoi miti e i suoi spesso falsi eroi, con appunto anche un doveroso sguardo verso le novità portate dalla versione italo-europea del loro genere, anche scontrandosi contro gli ostracismi della parte più reazionaria e moralista del circuito hollywoodiano (si vedano le battaglie contro tagli e censure, spesso perdute miseramente purtroppo, del principale rinnovatore americano del "genere di casa", Sam Peckinpah, di fatto il nome centrale al fianco di quello di Sergio Leone per quanto riguarda l'affermazione di una nuova visione del cinema Western in senso assoluto).
Il personale cinema western d'autore che Sergio Leone comincia a costruire con "Un pugno di dollari" ha spesso indicata come una delle principali fonti d'innovazione l'uso di un più crudo realismo nella messa in scena, nel racconto e nella caratterizzazione dei personaggi, con un distacco tale dagli schemi del western classico da far sembrare il genere del tutto rivoltato dall'interno, in un modo nemmeno minimamente avvicinato anche dai più coraggiosi western americani degli anni '50-primi '60 (nemmeno da un "Ride the High Country" del primo Peckinpah, che pure portava già molti elementi nuovi di verosimile crudezza al genere già nel 1962).
Tutto verissimo. Nell'Ovest (anzi, in questo caso nel Centro-America messicano) di Sergio Leone non c'è spazio per il piatto dualismo "bene-male"- "legge-fuorilegge" né c'è spazio per le dure ma eroiche figure del "mito della frontiera". Gli uomini qui sono tutti sporchi, duri, crudeli, avidi, cinici, amorali, selvaggi, astuti o stupidi, coraggiosi o vigliacchi ma in ogni caso violenti, che respirano omicidio e morte come primigenia ragione d'esistenza e non solo di sopravvivenza.
Non esistono eroi del west, il protagonista senza nome (lo chiamano "Joe" ma non si chiama mica veramente così) è sì alla fin fine mosso da un codice di giustizia personale e d'umanità che cela nel profondo, ma resta un anti-eroe mosso in gran parte dall'opportunità di guadagno a scapito di feccia peggiore di lui. Lui è "onorevole", ma non è un buono, è un cinico e solitario avvoltoio sceso dal nord, simile ma probabilmente più "amorale" rispetto alla sua controparte samurai di "Yojimbo", che pure si nascondeva altrettanto dietro una maschera da cinico profittatore.
Se l'uomo senza nome ha comunque in se residui di umanità e senso di giustizia, che quantomeno vengono risvegliati in lui da determinati avvenimenti, gli altri, i membri delle due famiglie rivali, sono tutti, chi in un modo chi nell'altro, feccia umana della peggior specie. E quelli che restano, il locandiere, il cassamortaro, la famiglia di Marisol, sono poveracci che cercano di sopravvivere come possono in un contesto dove non esistono pietà, morali o controllo.
E soprattutto è una vita dominata dalla violenza. Finalmente e con una forza ancora inedita allora nel genere, in "Per un pugno di dollari" esplode la violenza necessaria quando si descrive un mondo di frontiera dominato dalla forza bruta e dai colpi di proiettile. Morti, sangue e dolore, ferite e sporcizia, al di là delle possibilità date dagli scarsi mezzi a disposizione, nulla di tutto questo è lesinato.
La violenza è repentina, inesorabile, si spara, si uccide, si tortura, non viene nascosto nulla. "Per un pugno di dollari" inaugura un nuovo standard nell'espressione della violenza nel cinema western, ne alza di molto la soglia e apre nuove strade percorse da molti con sempre maggior coraggio (al pari dell'altrettanto seminale Peckinpah di "Sierra Charriba" per la parte autoctona della rivoluzione del genere).
Si tratta a mio avviso di un grande merito, quello di aver riportato la vita del "selvaggio west" mostrata sul grande schermo ad una dimensione più cruda e quindi più verosimile ed aderente alla realtà, più cinica e carnale, più umana nel bene e soprattutto nel male.
Tuttavia sarebbe sbagliato limitare i film di Leone, da questo in poi, individuandoli come film basati su uno spiccato "realismo"; i film di Leone non sono affatto realistici, a conti fatti. Hanno aspetti maggiormente realistici mescolati però ad artifici estetici, di regia, di montaggio e altro ancora che ne rafforzano la componente spettacolare ed anti-realistica (un discorso non dissimile si può fare anche con Peckinpah seppur con stili del tutto differenti, ma è un'altra storia...)
Leone amava il cinema d'intrattenimento, puntava su una messa in scena fortemente emotiva e spettacolare, o spettacolarizzata; il suo western è cinema profondamente epico, soltanto che anche l'epicità del western classico viene qui totalmente riletta e stravolta, personalizzata e reinventata. Sergio Leone dona al western una forza epica del tutto nuova, del tutto sua.
E la grande spinta in questa direzione gliel'ha permessa naturalmente il compositore (ed ex compagno di scuola) Ennio Morricone, di diritto considerabile il co-rivoluzionario italiano del western al fianco del regista, che da qui inizierà il sodalizio che darà i risultati conosciuti da tutti, ma proprio da tutti.
Mai prima di questo momento un compositore di tracce musicali per un film aveva avuto una simile importanza per la riuscita del film stesso, mai delle musiche per il cinema avevano così nettamente influenzato ciò che veniva rappresentato a livello diegetico, pur rimanendo esterne alla diegesi (ruolo esterno che verrà spezzato poi nei film successivi).
Forse l'esempio precedente più vicino che mi viene in mente in quanto a forza della musica che esce dal suo ruolo di semplice accompagnamento alle immagini lo ritrovo nella celeberrima partitura "lacerante" di Bernard Hermann in "Psycho", ma è più un'intuizione geniale, un guizzo di un momento, non una regola fissa e stabilizzata; oppure, paradossalmente, il non-uso della musica sempre in Hitchcock con "Gli Uccelli" ma, per forza di cose, rimane comunque un discorso differente.
Prima dell'uso che Morricone e Leone fanno delle composizioni del primo all'interno del film, c'erano si state belle partiture, funzionali colonne sonore, il discorso a se stante del musical e così via ma, di base, la musica nei film rimaneva un accompagnamento, magari molto bello, ma un accompagnamento; qui abbandona questo ruolo come mai aveva fatto prima; le varie partiture scritte da Morricone per il film finiscono con l'essere co-sceneggiatura e co-regia, le sue musiche non accompagnano e nemmeno evidenziano un momento, lo creano, lo modellano insieme alla regia di Leone, al montaggio (qui di Roberto Cinquini); sono le note di Morricone, i tocchi, i fischi, le esplosioni grandiose di tromba a costruire la drammatizzazione di una sequenza, l'epicità di un momento.
Ennio Morricone permette in modo decisivo a Sergio Leone di donare al cinema western un lirismo fino a quel momento sconosciuto, un lirismo commovente ed emozionante capace di portare quel contesto più crudo e verosimile in una dimensione nuova, di epica capace di muovere corde profonde nell'animo.
Contribuiscono anche a modificare la grammatica del film western, con esplosioni lirico-epiche sparse per tutto il film, spesso di eguale forza espressiva, non più un lineare crescendo narrativo, o comunque non più solo quello; sono le partiture di Morricone ad accompagnare la regia determinando i momenti più emozionanti dei film di Leone. Un secondo regista travestito da autore di colonne sonore, con un ruolo particolarmente centrale proprio nelle pellicole del vecchio amico di scuola.
Naturalmente, al di là di Morricone, anche Leone stesso alla regia rivisita totalmente la gamma espressiva, la grammatica e lo stile formale del genere western, cominciando ad esplorare quello stile poi perfezionato film dopo film: principalmente, il punto più evidente è che i campi lunghi che dominavano il western classico cominciano ad avere un ruolo minore, pur se non abbandonati del tutto, e diventa invece centrale l'uso di stretti primi e primissimi piani, a volte fino al particolare degli occhi, sui volti dei personaggi, inconfondibilmente caratterizzati, volti sporchi, storti, smorti, crudi, omicidi, volti di frontiera, che sono parte della forza memorabile di questi film, spesso mostrati allo spettatore come una galleria degli orrori con inquadrature molto brevi e un montaggio molto rapido che ne passa rapidamente in rassegna le storture, i ghigni, i sentimenti, rabbia, paura, dolore, come piccoli ma indimenticabili lampi; naturalmente a volte le inquadrature sono un po' più lunghe, il montaggio un po' meno repentino, ma nel duello finale viaggia comunque rapido tra gli occhi dello straniero senza nome e col sigaro in bocca e quelli di Ramòn.
I primi piani di Sergio Leone, il montaggio e le partiture morriconiane diventano un trittico espressivo e lirico devastante, la macchina da presa scava dentro quei volti e la cosa funziona meravigliosamente quando scegli anche i volti e gli attori giusti: nel finale, lo sguardo granitico di Clint Eastwood, attorucolo sconosciuto dalla mimica non particolarmente variabile ma terribilmente comunicativa e carismatica e lo sguardo ormai terrificato, perso, incredulo di uno dei più grandi attori nella storia del cinema, come Gian Maria Volontè si confermerà essere film dopo film negli anni successivi, esaltano e sono esaltati da queste inquadrature così ravvicinate, così espressive come i loro sguardi, mentre i fiati ispirati al "Deguello" di "Rio Bravo", in tono ancora più epicizzante, li circondano e avvolgono loro e lo spettatore in sensazioni nuove per questo tipo di film.
L'uso di altri trucchi e tecniche sempre più in voga nel cinema degli anni '60, come repentine zoomate sui volti degli attori, potenziano ancora di più lo stile di Leone, che diventerà sempre più fantasioso e spettacolare di film in film (pensiamo a quello che hanno combinato Sergio ed Ennio un paio di film dopo nel momento della "Febbre dell'oro").
Inoltre, ed è un altro tratto caratteristico e fondamentale del suo cinema, Leone se la prende comoda. In questo film, che dura appena 90 minuti ed è molto più secco e scarno rispetto a quelli che lo seguiranno, nemmeno troppo ma è comunque una caratteristica già presente, un certo gusto per la dilatazione elastica del tempo filmico e del ritmo narrativo, che diventerà poi un tratto così importante della sua narrativa da diventarne il perno centrale, con il tempo, in quell'altra "triade" di film che partirà con "C'era una volta il West", un'ulteriore nuova maturazione del genere apportata dal regista romano.
Il budget limitato è sfruttato bene, le scenografie scheletriche e la messa in scena tutto sommato semplice, equilibrata e scarna non donano che fascino al film, che in questo modo resta molto vicino all'epica kurosawiana che gli ha dato origine.
Si, perché "Per un pugno di dollari" è la riproposizione in salsa western non autorizzata di "Yojimbo", e questo si sa. Eppure non sfigura affatto rispetto al suo "originale", anzi ha forse qualcosina in più. Naturalmente c'è il cambiamento più grande, quello culturale-geografico, con tutte le modifiche del caso e altri piccoli tocchi importanti di "aggiornamento": il sigaro al posto dello stecchino, quattro casse invece di due-forse-tre, il dualismo che da katana-pistola passa da pistola-fucile winchester, una lastra di ferro al posto di un pugnale da lancio e un'ironia molto più nera e cruda rispetto a quella più comico-satirica del film giapponese, ma la storia è quella lì, leggermente asciugata e semplificata in alcuni dettagli, perché tanto le aggiunte narrative stanno altrove, nelle note di chitarra, di trombe o di fischi. Ecco cosa "Per un pugno di dollari" ha secondo me in più rispetto a "Yojimbo": che Akira Kurosawa non ce l'aveva mica un Ennio Morricone come compagno di scuola, ohibò.
Infine, gli attori. A parte una lunga sequenza di eccellenti caratteristi (uno almeno, il vecchio grande Marione Brega, lo voglio ricordare) che ritroveremo spesso anche in film successivi di Leone, i due protagonisti vanno ricordati: Clint Eastwood era un giovane signor nessuno americano che ha girato un western italiano a basso costo ed è diventato un signor tutto, una delle icone cinematografiche più grandi di sempre, lui con le sue due espressioni, con e senza sigaro e che, guarda un po', saprà reiventarsi dietro la macchina da presa come grandissimo regista, sia con dei western sia in tutt'altri generi, sempre con le lezioni del maestro Leone (tra gli altri, ma lui fu il primo) bene in mente, anche se a modo suo.
Gian Maria Volonté... Be, per me è il più grande attore italiano di sempre (insieme a Gassman, tò) e uno dei più straordinari di tutti i tempi per trasformismo, capacità di immedesimazione, rigoroso studio del ruolo e versatilità. Sarà il volto simbolo del cinema d'autore italiano "d'impegno civile" che darà tanti ottimi risultati negli anni '60 e '70 ma anche in questi ruoli da antagonista nel cinema "di genere" se la cava stupendamente, Ramòn è un personaggio splendido perché Volonté gli fa attraversare ogni possibile gamma emozionale nell'arco che va dalla sua prima apparizione al duello finale, pur in un personaggio meno complesso di quello che interpreterà nel successivo "Per qualche dollaro in più".
Rimangono memorabili anche molti dialoghi, molte battute storiche ("quando un uomo con la pistola incontra un uomo con un fucile, l'uomo con la pistola è un uomo morto") e la sequenza del duello finale varrebbe già una carriera, con la sua atmosfera epica con tratti quasi irreali, spettrali, l'uomo senza nome che continua a rialzarsi come un morto vivente mentre i primissimi piani mostrano il crescente smarrimento, poi il terrore negli occhi di Ramòn-Volontè, a cancellare la sua arroganza, la sua crudeltà, la sua sicurezza beffarda. Dio, che bella scena. Varrebbe già una carriera, dicevo, non fosse che Leone era certamente destinato a superarsi.
E visto che contradditoriamente violenza realistica ed epicità lirica e spettacolare si fondono senza soluzione di continuità nel cinema di Leone, la spietata carneficina della famiglia Baxter e il brutale pestaggio ai danni del protagonista sono due momenti simbolo di questa nuova frontiera di violenza nel cinema western, di questa America lontana dall'America ma molto più credibile.
Insomma, ne getta molti di semi "Per un pugno di dollari", che è stato l'inizio di tante cose nuove e di parecchie carriere monumentali nella storia del cinema. Gli preferisco tutti i successivi film di Leone ma, insomma, è spaccare in quattro un capello. A colpi di pistola, ovviamente.