Dom Cobb 9 / 10 21/02/2016 20:48:52 » Rispondi Millenni fa, durante la Seconda Era, vennero creati degli anelli magici distribuiti fra i signori delle varie razze: tre agli Elfi, sette ai Nani e nove agli Uomini. Ma il Signore di Mordor, Sauron, ne creò un altro in gran segreto, con lo scopo di controllare tutti gli altri, un Anello per domarli tutti. Sconfitto in battaglia, l'Anello di Sauron, anziché essere distrutto, passò di mano in mano, fino a entrare in possesso di un giovane Hobbit della Contea, Frodo Baggins. A questi tocca l'onere di portare, scortato da una compagnia di valorosi, l'Anello al Monte Fato, nel cuore di Mordor, per distruggerlo una volta per tutte... Pubblicato per la prima volta agli inizi degli anni cinquanta da un professore di lingue di Oxford, un tal John Ronald Reuel Tolkien, Il Signore degli Anelli è entrato di diritto nella storia della letteratura mondiale, ponendosi come ideale (anche se non reale) capostipite di un genere, il fantasy, che da allora ha dilagato sia nella letteratura che, più tardi, al cinema, fra giovani talenti ispirati da esso e imitatori ansiosi di replicarne il successo. Il suo impatto culturale a livello mondiale è senza precedenti, sopravvive ancora oggi e, sicuramente, sarà così anche per i decenni a venire; in breve, una vera opera senza tempo e senza eguali. Questo per chiarire che un adattamento basato su un'opera talmente complessa e preziosa non è cosa da poco, al punto che nei cinquant'anni successivi alla sua pubblicazione vi è stato un solo tentativo di portarlo sul grande schermo, per di più animato, senza incontrare i favori del pubblico, fan del libro o no. In effetti, per anni l'opera era stata dichiarata impossibile da trasporre in maniera soddisfacente, almeno finché il giovane neozelandese Peter Jackson, decise di raccogliere la sfida. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, ed è comune opinione che la trilogia dell'ormai pluripremiato regista sia un vero e proprio capolavoro tanto quanto l'opera da cui è tratta, rappresenta per il cinema ciò che il libro continua a rappresentare per la letteratura. Una svolta nell'arte della cinematografia, una pietra miliare di narrazione fantasy sul grande schermo e di strepitosi effetti speciali. Tutto questo è vero, e perfino quei pochi ai quali risulta difficile, se non impossibile, appassionarsi al genere, ammetteranno che questi film non sono privi di qualità. Anche per me è così: fin dai primi attimi, mentre un'eterea voce femminile sussurra parole in una lingua sconosciuta e melodiosa nell'oscurità più totale dello schermo, questa prima parte della trilogia riesce a creare un'atmosfera appropriatamente epica e suggestiva, catapultando lo spettatore in un mondo ricreato con una convinzione e una cura per i dettagli davvero rare. Complici sono l'ottima regia di Jackson, la cui passione e il rispetto per l'opera del professore sono evidenti in ogni inquadratura, anche se nelle scene d'azione più concitate si nota una certa incertezza nell'uso della telecamera a mano,
Lo scontro con gli Orchi nelle miniere di Moria risulta a tratti un po' confuso, così come alcuni attimi della battaglia nella foresta durante il finale.
scenografie e costumi incredibilmente reali, grazie anche alla scelta di renderle in qualche modo logorate e "usate", dando la sensazione di luoghi con una loro storia alle spalle, una splendida fotografia che riesce a valorizzare tutti gli ambienti, una signora colonna sonora scandita da epici cori elfici, ora più cupa e angosciante, ora più delicata e melodiosa. Ma a prevalere su tutto il resto, sotto questo aspetto, sono proprio i meravigliosi paesaggi della Nuova Zelanda, terra d'incanto che non ha bisogno di effetti digitali per mostrare tutta la bellezza dei suoi paesaggi. A condire il tutto effetti speciali ottimamente gestiti, mai troppo vistosi e mai abusati, capaci di donare al film un ammaliante stile visivo, debitore forse di dimenticati cult filmici del passato.
Un'inquadratura della torre di Bahrad'dur sembra uscita dritta dritta dal dimenticato Taron e la Pentola Magica, mentre alcuni dei paesaggi più bucolici sembra richiamare il Legend di Ridley Scott.
Anche il cast, azzeccato fino alle meno appariscenti comparse sullo sfondo, fa la sua parte, o almeno, la maggior parte di esso: la cura con cui ogni attore è stato scelto e assegnato alla rispettiva parte c'è e si vede, così come si vede l'impegno che ciascuno di loro ha profuso nella sua performance. Pezzi da novanta del calibro di Ian McKellen, Christopher Lee, Cate Blanchett e Hugo Weaving si affiancano a volti un po' meno noti, come Liv Tyler, Elijah Wood e Sean Astin, e tutti loro danno il loro meglio, anche se talvolta gli sforzi sono tali da rendere le interpretazioni un po' sopra le righe.
Non a caso, fin dalla prima visione del film, ho l'abitudine di pensare a Galadriel come a una tipa completamente fumata, stesso dicasi per il protagonista Frodo.
A distinguersi in positivo da tutti gli altri sono il sempre bravo Sean Bean, qui forse in una delle sue prove migliori, e Ian Holm, capace di dare al suo personaggio maggiore tridimensionalità di quanto farebbe pensare la sua ridotta apparizione in scena. Ora, viene spontaneo, quasi automatico paragonare questa trilogia alla seguente serie de Lo Hobbit, dello stesso regista, da tutti giudicata senza mezzi termini inferiore: di certo, Il Signore degli Anelli ha il vantaggio di basarsi su un'opera più vasta, il che permette una narrazione più coesa e compatta, e qui si fa anche un uso molto più equilibrato di effetti speciali. Ma, posto che i film basati sulla trilogia dell'Anello sono senz'altro i migliori, ammetto che per me i film de Lo Hobbit sono più facili da guardare, per ben due motivi. Innanzitutto, per quanto qui non manchino siparietti comici ben gestiti, i prevalenti toni epici e seriosi, sebbene la maggior parte del tempo restituiscano il sapore mitologico del libro, a tratti rendono la visione un po' pesante. Inoltre, se si dovesse fare un confronto fra i due personaggi che reggono la rispettiva serie sulle loro spalle, ossia Martin Freeman ed Elijah Wood, quest'ultimo sfigurerebbe: il suo è un Frodo Baggins tormentato, stralunato e fin troppo fragile, incapace di cavarsela da solo in qualunque situazione e sempre caratterizzato da un'espressione facciale che, alle lunghe, potrebbe venir considerata irritante. E quando uno dei pochi difetti di una serie di film è proprio il protagonista, allora è un bel problema. In definitiva, però, la qualità complessiva del film resta comunque alta, così come il godimento, maggiormente elevato dalla consapevolezza che, per certi versi, qui stiamo parlando di vero Cinema: un Cinema capace di rapire, incantare e catturare. George Meliés ne sarebbe fiero.