kafka62 7½ / 10 08/04/2018 12:53:09 » Rispondi Devo confessare di non avere mai letto "Il signore degli anelli" di Tolkien, e pertanto sgombro subito il campo dalla seducente ma fuorviante tentazione di addentrarmi nell'analisi del rapporto esistente tra il libro e il film. Chi lo ha letto mi ha assicurato che quanto messo in immagini da Peter Jackson è sostanzialmente fedele alla pagina scritta: quindi tutte le peripezie, le prove e i combattimenti che affrontano i personaggi della saga sono frutto innanzitutto della fantasia di Tolkien. A chi addebitare quindi quel senso di ridondanza narrativa che ho provato durante le tre ore di durata della pellicola? All'originale di partenza o al regista neozelandese? Ai tre autori della sceneggiatura o alla produzione hollywoodiana? La risposta, a mio avviso, sta nel difficile equilibrio tra la prima parte del film, imperniata sulla contrapposizione tra il solare mondo degli hobbit e l'infernale universo di Sauron e dei suoi orchi, e la seconda parte, in cui l'azione e gli effetti speciali prendono chiaramente il sopravvento. Così, mentre all'inizio si delineano i termini dell'eterno conflitto tra il Bene e il Male (in termini semplicistici, certo, ossia secondo i canoni convenzionali della favola, ma anche con qualche notazione originale, come ad esempio l'autonomia e l'indipendenza del Male, rappresentato dall'anello del potere, rispetto ai suoi vari pretendenti) e aleggia un senso di impalpabile pericolo e di oscura minaccia (i nove cavalieri incappucciati che inseguono Frodo e i suoi tre amici), man mano che il film va avanti prende corpo la logica, tipica dei blockbusters hollywoodiani, della continua progressione degli ostacoli che sbarrano la strada dell'eroe (a un nemico terribile fa seguito un secondo nemico ancora più terribile, e così via, con la sorpresa e lo choc che prendono definitivamente il posto della suspence). Siccome l'eroe (in questo caso gli eroi, visto che hobbit, elfi, nani e uomini si coalizzano in una sorta di armata Brancaleone, cosa che consente – ulteriore stereotipo narrativo – di assistere a un paio di commoventi sacrifici individuali per la sopravvivenza del resto del gruppo) combatte sempre con le stesse risibili armi, siano esse spade, archi o asce, alla fine nasce inevitabilmente una fastidiosa sensazione di ripetitività, dal momento che, per quanto grosso e apparentemente invincibile, l'avversario è pur sempre messo fuori combattimento con gli stessi strumenti con cui erano stati sconfitti i suoi predecessori (vale a dire, se per il primo orco è sufficiente una freccia, per quello successivo ne occorreranno tre, ma la sostanza non cambia). Oltretutto questo meccanismo, per sostenersi, necessita di un progressivo diradamento dei momenti di pausa e di riflessione e di un conseguente ravvicinamento temporale delle scene di battaglia, cosa che, in assenza di un vero e proprio epilogo (il film non è infatti che la prima parte di una trilogia), determina un considerevole squilibrio narrativo. Detto questo, non si deve pensare a "Il signore degli anelli" come a un film brutto o sbagliato. Per quanto sia una pellicola di facile fruizione (ma anche "Guerre stellari", che si è ormai ritagliato un posto di primissimo piano nella storia del cinema, lo era), lo spettatore più smaliziato può trovarvi echi delle saghe nordiche, del mito dell'Odissea e perfino dell'Antico Testamento (la ragazza-elfo fa affogare nel fiume i cavalieri incappucciati così come Mosè aveva fatto con gli inseguitori del suo popolo in fuga dall'Egitto). Il vero punto forte del film è comunque la sfrenata fantasia di Jackson, che già aveva dimostrato doti analoghe nel suo film di esordio, "Creature del cielo", quando i sogni delle due giovani protagoniste prendevano corpo in originalissimi intermezzi horror. La "Terra di mezzo" in cui si muovono i personaggi di Tolkien è infatti un capolavoro fatto di continue trovate spettacolari, inesauribili invenzioni scenografiche e formidabili exploit visivi (la trilogia è costata nientemeno che 270 milioni di dollari), tutto giocato sul dualismo luce-tenebra: da un lato la Contea degli hobbit, un posto talmente idilliaco, luminoso, pulito e colorato da sembrare uno spot pubblicitario, dall'altro il terrificante regno di Sauron e la fucina degli orchi, costruita nelle viscere della terra, con i quali Jackson realizza un autentico colpo di genio, facendo coincidere finalmente il mondo dei fumetti con gli indimenticabili incubi pittorici di Bosch e di Brueghel il Vecchio.