Recensione un gelido inverno regia di Debra Granik USA 2010
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Recensione un gelido inverno (2010)

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locandina del film UN GELIDO INVERNO

Immagine tratta dal film UN GELIDO INVERNO

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Immagine tratta dal film UN GELIDO INVERNO

Immagine tratta dal film UN GELIDO INVERNO
 

Scordatevi l'America glamour della Fifth Avenue o quella esclusiva dei grattacieli di lusso dell'Upper East Side, scordatevi di Beverly Hills e di Santa Monica, di Hollywood e della sua elegante Sunset Boulevard, scordatevi l'America dell'agiatezza e dei paesaggi da cartoline, qui siamo tra le sperdute lande del Missouri, nel crudo, desolato, freddo paesaggio delle montagne Ozarks, un luogo tetro, arcigno e inospitale. Sono i luoghi dell’America rurale, cattiva, spietata.
Ozarks, appunto, quasi montagne anche se è solo un altipiano, tra gli Appalachi a destra e le Montagne Rocciose a sinistra.
E questi nel Missouri sono i luoghi più remoti della provincia americana, da affrontare  con coraggio e a muso duro, dove la vita e difficile e l'America edulcorata dei manifesti è solo un miraggio. Ed è qui, nel cuore di questo freddo altipiano, che è ambientato il film di Debra Granik, "Un gelido inverno", aderente trasposizione cinematografica del romanzo omonimo di Daniel Woodrell, autore che nutre le sue opere della stessa atmosfera che avvolge i luoghi che ama e che conosce molto bene.

In questa terra ai margini degli Stati Uniti, in una vecchia baracca di legno, vive Ree, una fanciulla diciassettenne oppressa dalla miseria e divenuta adulta troppo in fretta.
Ree culla un sogno di fuga, che non si realizzerà mai: arruolarsi nell'esercito degli Stati Uniti. Nel frattempo è costretta a prendersi cura dei suoi due fratellini, facendo le veci della madre, caduta in depressione per le malefatte del marito.
Ree ha passato la sua giovane esistenza dedicata alla sua famiglia, curando i fratellini più piccoli, procurando loro il cibo, preoccupandosi che vadano a scuola, facendo dal vero i lavori che le altre ragazzine della sua età riproducono, per gioco, con le bambole. La ragazza inoltre è in un mare di guai non per colpa sua: suo padre, infatti, piccolo produttore di anfetamine (come la maggioranza degli altri uomini della comunità) è finito in carcere per spaccio di droga. Ora è uscito di prigione e prima di sparire nel nulla, ha ipotecato la casa dove vive la sua famiglia e il bosco che la circonda, per pagarsi la cauzione e godersi una parentesi di libertà, prima della sicura condanna.
Non si dovesse presentare presto all'udienza, la baracca e il bosco verrebbero confiscati e Ree e la sua famiglia messi in mezzo alla strada.
Per scongiurare il pericolo Ree si mette in viaggio sulle tracce del padre, per costringerlo a presentarsi in tribunale. Viaggio, però, forse è una parola troppo grossa perché il viaggio è un'aspirazione, una necessità; è il luogo dell'anima dove nascono i grandi sogni e la mente corre veloce, dove il tempo è poesia e un passo non è mai uguale a quello che l'ha preceduto, né a quello che lo seguirà.
Qui non è così, perché il viaggio di Ree, nasce dal bisogno; bisogno di scoprire che fine ha fatto suo padre, per non perdere tutto ciò che le rimane e poter continuare a lottare per la sopravvivenza della sua famiglia.

Questo però va contro le leggi omertose che regolano la comunità e che ora proteggono il mistero della scomparsa del padre, Ree si ritroverà ad affrontare le paure, l'ostilità, i silenzi della gente e la brutale criminalità di uomini e donne - anche del suo stesso clan familiare - i quali dopo aver passato una vita a distillare whisky di frodo adesso fanno lo stesso con la cocaina.
In questo universo di regole arcaiche, di immoralità e di squallore, in cui tutti, più o meno, sono complici e nemici del padre - compreso lo zio Teardrop, inquieto tossicomane( con cui comunque alla fine riuscirà a costruire un rapporto familiare e costruttivo, che le permetterà di risolvere il mistero della scomparsa di suo padre) Ree, mettendo a repentaglio la sua stessa vita, si troverà costretta a fronteggiare l'ostilità e i silenzi della gente, che non vuole si scoprano i propri segreti e si minacci un equilibrio fondato sull’'illegalità, per scoprire la verità sulla latitanza e sul destino di suo padre.

Questo è "Un gelido inverno", un film di stampo epico, che colpisce come una frustata e ti entra dentro per rimanerci a lungo.
A tratti fa pensare al recente "Frozen River," per quella forte tematizzazione invernale e il contesto ambientale squallido e opprimente della provincia della profonda America, in cui la componente femminile gioca un ruolo cruciale e si carica sulle spalle un pesante fardello di responsabilità per la palese insufficienza degli uomini.
Per altri versi, invece, ricorda "Un tranquillo week-end di paura", per quell'analogia con un mondo primitivo e selvaggio in un luogo senza regole e senza legge, dove si agitano fantasmi non pacificati e si rifiuta qualunque idea di civilizzazione .

Attraverso una storia di oggi, il film mostra, senza neanche troppo cinismo, il volto di un'America che non ci si aspetta e che ricorda il vecchio west, dove vige(va) la legge del più forte e non si vive(va) senza un fucile pronto a sparare.
È l'America lontana dalla modernità e dalla cultura del presente, dove il tempo sembra essersi fermato e non offre vie di fuga. È l'America guerrafondaia e militaresca, dove i reclutatori dell'esercito fanno proseliti tra i ragazzi delle hight school per mandarli a morire in posti lontani. È l'America del fallimento del "new deal" e dell’ "american dream", dove si vive in situazioni difficili, al limite dell'indigenza, in un ambiente inospitale, deprimente e mortificato: catapecchie come case, carcasse di auto e pneumatici abbandonati, una natura selvaggia e arida dove anche le erbacce fanno fatica a crescere, dove domina soltanto la violenza e gli spari dei bracconieri si confondono con le guerre tra i vicini.
E poi la gente, sospettosa, diffidente, sovrappeso, i lineamenti appuntiti segnati dalla fatica e dalle privazioni, bruciati dal freddo e invecchiati precocemente.
"Un gelido inverno" ci mostra spietatamente i volti di quegli uomini e di quelle donne, volti non imbellettati che mostrano più di quanto non dicono tutte le sconfitte della vita.

Debra Granik, con realismo crudo ed essenziale, dirige un film venato di orrore - anche se non ci sono immagini orrorifiche e le scene di violenza non sono particolarmente cruente- che fluttua tra il thriller e il dramma e dà tangibilità al gelido inverno del Missouri.
Un freddo che arriva fin dentro l'anima e congela i sensi, ma che non riesce a scalfire l'indomita determinazione di una ragazzina nel suo viaggio verso l'inferno del padre e verso le sue sordide amicizie. Un viaggio circondato dagli ostili silenzi di un universo umano, senza cultura, che vive in balia degli istinti primordiali, ai margini della civiltà e fiera di essere tale. Un piccolo microcosmo che fatica a vivere e si nutre di vendette e di sangue, al confine di un'America dalla coscienza malata e dalle opportunità disattese, lontana da quella grandezza che tanto cinema ci ha fatto conoscere e mitizzare. Un viaggio tra i perdenti che la porterà fin sulle sponde di un oscuro e torbido acquitrino, custode del segreto della fine di un padre disperato e assente, incapace di essere tale e rivestire il suo ruolo all'interno della sua famiglia.

Il cinema di Debra Granik si caratterizza per la cura dell'essenziale e per lo splendore delle inquadrature, che incorniciano il paesaggio spoglio e quasi lugubre dei boschi senza vita del Missouri, le colline spoglie, le case come catapecchie, panni stesi come bandiere e bandiere stars and strips esposte ovunque, ma anche nelle atmosfere plumbee e nebbiose, gravide di ombre e di misteri. Tutto è come morto, congelato, abbandonato perfino dai fantasmi, come se un'inquietudine profonda pervada uomini e cose e li estranei dal mondo civile.

Nel cinema della Granek, la componente femminile gioca un ruolo privilegiato e molto importate e spesso si sostituisce agli uomini nell'esercizio della prevaricazione, di cui quella società è pervasa: siano esse le donne che custodiscono la vita, siano esse le donne- braccio armato della violenza maschile.
Donne che cucinano, rigovernano, fanno bambini e li accudiscono insieme agli animali; che picchiano, tagliano la legna, prendono decisioni e difendono i loro uomini. Quegli uomini marginali, che sembrano esprimere tutto il peggio del genere umano, uomini che spadroneggiano e uccidono, che si drogano e si ubriacano,che spacciano droga e taglieggiano.

Saranno loro, le donne, a diventare le peggiori nemiche di Ree e ad ostacolare la sua ricerca della verità.
A fare da contraltare a questo universo neo-femminista, apparentemente succube e piegato alla volontà maschile e alla legge del più forte, ma in realtà dedita a ripetere gli stessi rituali di violenza dei loro compagni, c'è Ree, una ragazza che non accetta compromessi  - "bread'n butter", come lei ama spesso ripetere - disperata ma più forte di chiunque cerchi di sbarrarle la strada, dotata di quel coraggio che nasconde la paura ed esprime la forza d'animo femminile.

C'è poi il clan, la tribù, in cui gli estranei non sono accettati. Si vive di sangue e di vendette, di debiti e di compromessi, di ingiusta violenza, mentre scorre un fiume invisibile di droga e la musica country e l'unico momento socializzante.
In questo universo si cresce in fretta e si diventa adulti prima del tempo, i bambini imparano presto a sparare per vincere la paura, e a scuoiare gli scoiattoli per vincere la fame.

Debra Granik dirige un film memorabile, poetico e disperato, gelido come l'inverno del titolo, una favola nera colma di pathos e di tensione, che coinvolge lo spettatore e lo rende partecipe del doloroso coraggio di Ree e del suo viaggio compiuto per amore.
Un film indipendente, tipico del Sundance Festival di Robert Redford, dove ha conquistato il Gran Premio della Giuria e il Riconoscimento come miglior sceneggiatura non originale.

Un piccolo film che è anche un affresco sociale, curato nei minimi dettagli,  dai dialoghi scarni ed essenziali e da una colonna sonora ridotta ai minimi termini, con un titolo italiano che addolcisce quello originale: Winter's Bone, "Ossa d'inverno". Le fragili ossa spezzate dal gelo d'inverno, prima che qualcuno te li spezzi davvero. Un film lento ma magistralmente diretto e sceneggiato, e ancora più magistralmente interpretato da una splendida e giovanissima Jennifer Lawrence, che si addossa tutta la forza di una pellicola, con una recitazione convincente ed intensa, tale da portarla ad essere candidata all'Oscar come miglior attrice protagonista.
Le fa da spalla il bravissimo John Hawkes, anche lui candidato agli Oscar come migliore attore non protagonista e ben calato nei panni di Teardrop, lo zio tossicomane di Ree, con l'animo colmo di straordinaria umanità e capace di un suo personale rinnovamento nella visione etica del mondo.
Un momento alto di cinema in cui si riflette, come in uno specchio, il dramma della desolazione di un mondo senza futuro, descritto senza enfasi e senza finzioni, e con un realismo che scava a fondo nella cultura popolare americana, creduta ormai perduta per sempre.

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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 10/03/2011 16.30.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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