Recensione porte aperte regia di Gianni Amelio Italia 1990
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Recensione porte aperte (1990)

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Miglior filmMiglior attore protagonista (Gian Maria Volontè)Migliori costumiMiglior sonoro
VINCITORE DI 4 PREMI DAVID DI DONATELLO:
Miglior film, Miglior attore protagonista (Gian Maria Volontè), Migliori costumi, Miglior sonoro
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locandina del film PORTE APERTE

Immagine tratta dal film PORTE APERTE

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Immagine tratta dal film PORTE APERTE
 

La storia gratta il fondo come una rete a strascico con qualche strappo e più di un pesce sfugge. Qualche volta s'incontra l'ectoplasma d'uno scampato e non sembra particolarmente felice. Ignora di essere fuori, nessuno glie n'ha parlato. Gli altri, nel sacco, si credono più liberi di lui.
(Eugenio Montale, estratto da La storia)

Gianni Amelio nel 1990, prendendo come punto di partenza l'omonimo scritto di Leonardo Sciascia del 1987, firma regia e in parte anche sceneggiatura di "Porte Aperte", presentato al 43° Festival di Cannes nella Quinzaine des Realisateurs. Film che sarà poi candidato all'oscar come miglior film straniero, sarà vincitore di quattro David di Donatello e nel 1991 del Nastro d'Argento per la regia. La sceneggiatura porta anche le firme di Vincenzo Cerami e Alessandro Sermoneta.

La storia è ambientata nella Sicilia degli anni Trenta, in pieno regime fascista. Tommaso Scalia (Ennio Fantastichini) una mattina si reca dall'ex-datore di lavoro e lo uccide con una baionetta, stessa sorte capita all'impiegato che in quel momento occupa quella che, fino a poco tempo prima, era la sua scrivania. Poco dopo, nel tragitto in auto verso casa assieme alla moglie ferma l'auto in mezzo alla campagna e con un colpo di pistola si macchia anche di uxoricidio; quindi si dirige a casa, abbraccia il figlio e si distende sul letto attendendo l'arrivo delle forze dell'ordine. L'uomo, reo confesso, è presto tradotto in carcere e così inizia il suo processo, a quanto pare piuttosto semplice nella risoluzione.
Giustappunto sotto il regime fascista l'omicidio premeditato era condannato con pena di morte tramite fucilazione. Lo stesso imputato sembra attendere solo la fine di tutto.
Il processo prenderà una strada meno diretta e semplice a causa della presenza del giudice a latere Vito Di Francesco (Gian Maria Volontè) e di uno dei cinque giurati effettivi, un agricoltore all'apparenza semplice saggio contadino, ma che si rivelerà, nel corso del procedimento penale, attento lettore e critico intellettuale. A entrambi questi personaggi il partito fascista risulta fin troppo obbligante. A fatica riescono a restarne dentro così come con troppe sofferenze occorrerebbe loro chiamarsene completamente fuori; giudice e giurato trovano la pena di morte un atto di gratuita inciviltà.
Il giudice quindi, temporeggiando, scaverà nel passato dell'imputato per trovare eventuali attenuanti, chiamando a testimoniare chiunque possa avere informazioni sul suo passato e sul suo modo di vivere.

Il romanzo dello scrittore di Racalmuto è da considerarsi un suo ritorno alla narrazione, dopo i vari libri inchiesta e i saggi, anche se il racconto mantiene una forma quasi saggistica, dovuta ai vari interventi dell'autore, soprattutto per quanto riguarda l'ermetica figura del giudice, personaggio realmente esistito e conosciuto da Sciascia stesso.
Un personaggio questo che, sia nel romanzo, sia nel film, rimane puro pensiero, teso verso un impalpabile senso di giustizia. Un uomo di spirito e dal carattere solitario, dubbioso e pietoso.

Amelio nella sua trasposizione cerca di approfondire ulteriormente questo personaggio rendendolo più caparbio e combattivo di quanto descritto da Sciascia. Il regista pone in netta contrapposizione Vito Di Francesco non solo con il potere dominante, ma soprattutto con le sue origini, la sua famiglia. Indimenticabile la scena del pranzo in cui padre e figlio si trovano su posizioni nette e contrapposte proprio riguardo alla risoluzione del processo.
Il figlio sembra quasi voler contrastare tutto quello per cui il padre ha lavorato e in cui ha sempre creduto.

Non sarà in conflitto solo con il padre bensì anche con il procuratore e il presidente del processo. Durante un teso e imbarazzante pranzo questi due personaggi cercano di porre l'accento sulla fondatezza e sull'imprescindibile significato della pena di morte, citando quello che fu un vero e proprio slogan fascista, cui il titolo "Porte Aperte" fa riferimento.

Sciascia e Amelio smascherano la fragilità del regime, che puntava sulla sicurezza dell'ordine pubblico a ogni costo, facendo affermare a Di Francesco che la pena di morte "non è materia di giurisprudenza, ma di politica". Nella medesima scena, quando l'inquietante procuratore afferma "siamo gente per bene e dobbiamo fare in modo che la gente per bene possa vivere tranquilla, possa andare alla sera a dormire lasciando aperta la porta di casa" la risposta del giudice a latere non si fa certo attendere: "o la porta di casa mia la chiudo sempre".

Questo è un film di denuncia storica, è un film coraggioso che lascia un forte senso d'impotenza nello spettatore e anche di amarezza.  Il giudice, infatti, otterrà il carcere a vita per l'imputato Scalia, nel primo processo, ma sarà immediatamente trasferito in un'oscura e sperduta provincia. La profondità sia dello scritto di Sciascia che del film di Amelio è tale da far apparire l'analisi della struttura giudiziaria e sociale della Sicilia degli anni '30 fin troppo sintetica, il film non ha per nulla una durata eccessivamente breve, ma non consente di metabolizzare appieno la raffinatezza e la ricerca compiute da scrittore e sceneggiatori.

A tale scopo risulta preziosa l'attenzione ai singoli particolari, alle diverse citazioni letterarie e anche alle incredibili espressioni mimiche di Fantastichini, di Volontè e di Giovanpietri (nel ruolo del presidente Sanna).

Il film ha una struttura quasi divisa in tre grandi blocchi: uno incipit drammatico e dai toni cupi, una parte centrale, che è una narrazione di stampo tradizionale giudiziario, e un epilogo non consolatorio, ma con atmosfere notevolmente più rilassate rispetto a quelle iniziali. Un film dunque importante incorniciato oltre che da splendide interpretazioni attoriali e da una regia accurata e attenta anche da una bella fotografia firmata Tonino Nardi e dalle musiche di Franco Piersanti. Dalle opere dello scrittore di Racalmuto sono stati tratti numerosi film tra cui gli indimenticabili "Cadaveri Eccellenti" di Rosi, "Todo Modo" di Petri, "Il giorno della civetta" di Damiani e altri ancora.

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Recensione a cura di foxycleo - aggiornata al 29/12/2010 15.55.00

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