Recensione maghi e viaggiatori regia di Khyentse Norbu Bhutan, Gran Bretagna 2003
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Recensione maghi e viaggiatori (2003)

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locandina del film MAGHI E VIAGGIATORI

Immagine tratta dal film MAGHI E VIAGGIATORI

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Immagine tratta dal film MAGHI E VIAGGIATORI

Immagine tratta dal film MAGHI E VIAGGIATORI
 

Opera seconda di Khyentse Norbu, "Maghi e viaggiatori" accompagna lo spettatore, così come i protagonisti che ascoltano le storie del monaco viandante, dentro un mondo fatto di incantesimi, di pozioni, di innocenza perduta e di amore contrastato, di torbide passioni e di sudditanza verso un marito-padrone, di abbandono, di omicidio e di morte. È il mondo in cui trova forma il racconto di Tashi che, dopo aver bevuto una pozione magica si trova scaraventato nella capanna in cui vivono il vecchio Agay e la sua giovane moglie Deki, e con Deki vivrà una relazione amorosa portata fino alle estreme conseguenze. Il tutto avvolto in un'atmosfera che ha il potere di trasportare chi osserva entro una dimensione incorporea dove il confine tra il vissuto reale e l'immaginario non è mai distinto.
Ciò che succede non è mai cercato o voluto dagli uomini, è conseguenza delle loro azioni e dei meriti accumulati in questa vita. È così anche per il giovane Dondup che ha perso l'autobus e si ritrova in compagnia del monaco e degli altri viaggiatori. Partito dal lontano villaggio dove è funzionario governativo, alla volta della capitale Thimphu, sebbene proiettato mentalmente verso gli Stati Uniti, si innamorerà strada facendo della graziosa Sonam che sta accompagnando il padre al mercato. Quale sarà il suo karma: rimanere legato a Sonam nel Bhutan o raggiungere l'agognata America?

La trama lascia intendere che Dondup sceglierà l'America, ma noi preferiamo credere in un finale aperto. Grazie alla complicità del monaco che tiene assieme le fila del racconto e che sembra manovrare come un burattinaio i movimenti e le reazioni dei suoi compagni di viaggio, la storia, pur così pregna di simbologie e accenni al conosciuto e all'inconosciuto, si carica di fascino per la sua semplicità, mentre culla lo spettatore in un limbo sospeso tra sogno e realtà. Se però non fosse questo il vero percorso che il regista Norbu intende suggerire? Se "Maghi e viaggiatori" non fosse quello che sembra: un involucro per una storia che contiene al suo interno un'altra storia? Se il monaco che tanta influenza sembra esercitare sui suoi compagni di strada da indirizzarne i comportamenti, volesse invece condurli, e noi con loro, in un viaggio nel trascendentale, facendoci rivivere in prima persona le gesta dei personaggi dei suoi racconti? Un'esperienza affatto inusuale in un universo popolato di maghi e taumaturghi, di spiriti che dimorano nell'aria, dove - sarà l'altitudine, sarà il silenzio e l'isolamento, sarà la solitudine - la pratica meditativa e la magia rendono possibile compiere viaggi mentali e fisici da un luogo a un altro, da una dimensione a un'altra, senza mai essersi messi in cammino...

Il dolce e l'amaro delle cose che passano

Quell'esile filo che separa (o congiunge) la realtà dall'immaginazione in "Maghi e viaggiatori" sta racchiuso tutto nel ruolo interpretato dal monaco viandante, il quale, attraverso i suoi racconti fantastici e avventurosi sembra quasi voler infondere, almeno idealmente, nei suoi compagni viaggiatori, gli insegnamenti del dharma (la legge). Non va dimenticato infatti che il regista Norbu è egli stesso prima di tutto un lama buddhista. Per questo il messaggio veicolato dalla scabrosa vicenda parallela di Tashi, Deki e Agay, emotivamente molto pregna, se si adotta l'interpretazione lamaista potrebbe anche essere letto come un monito ad attenersi alla via di mezzo dell'ottuplice sentiero: retta comprensione - retta decisione - retto eloquio - retto agire - retto modo di sostentarsi - retto sforzo - retta concentrazione - retta meditazione.

Per non incorrere nelle sventure occorse a chi (leggi Tashi e Deki) ha voluto perseguire esclusivamente le soddisfazioni del proprio piacere egoistico, fisico e materiale, trascurando la cura dello spirito e alimentando altresì la sete di possesso, la pratica dell'ottuplice sentiero - sembra essere l'insegnamento morale - rimane l'unica via da seguire per porre fine alla sofferenza e, una volta interrotto il ciclo delle rinascite (samsara), poter anelare alla realizzazione dello scopo ultimo dell'esistenza: il nirvana.

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Recensione a cura di Severino Faccin - aggiornata al 16/04/2008

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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