Recensione il cammino per santiago regia di Emilio Estevez USA, Spagna 2010
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Recensione il cammino per santiago (2010)

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locandina del film IL CAMMINO PER SANTIAGO

Immagine tratta dal film IL CAMMINO PER SANTIAGO

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"Toh, un americano senza un'opinione! Fategli una foto".

Ci sono vari modi per raccontare una storia, ma quando ci si approccia a una storia che ha come tema principale, o quantomeno come sfondo, cornice e ambientazione il Cammino di Santiago ogni regola della complessa arte del raccontare rischia di essere sovvertita e occorre una sana dose di coraggio per continuare a scrivere o meglio a girare.

"Ma è la strada sbagliata quella che mi spaventa! Quella che temo di aver imboccato..."

Thomas Avery (Martin Sheen), oftalmologo statunitense sull'orlo del pensionamento ("ma che ancora può fotterci tutti"), è un posato e sarcastico signore da country club e high class yankee, vedovo e padre di un unico figlio che sappiamo fin da subito morirà alla prima tappa del pellegrinaggio più famoso al mondo: la strada per il santuario di Santiago de Compostela, che parte dai piedi dei Pirenei e giunge fino alla capitale della Galizia, nella Spagna nord-occidentale. Daniel Avery (Emilio Estevez, regista del film) è il contrario di suo padre, attivo, energico, inquieto, per nulla rassegnato alla carriera borghese e annoiata da dottorati alla Berkley che il padre ha scelto per lui. Vuole vedere e conoscere il mondo e rimane vittima, appena quarantenne, di una tempesta sul giogo montano che segna il confine tra la penisola iberica e il continente europeo: una rarità, ma una rarità possibile (lo documentano le poche, ma tristi sepolture che si trovano lungo il percorso). Il rapporto tra padre e figlio è come quasi sempre succede problematico e ai limiti dell'incomunicabile, tuttavia, come altrettanto spesso accade, segnato da una sotterranea e profondissima benevolenza: Thomas infatti, lungi dall'essere lo yankee (o il "boomer") che appare a prima vista, deciderà di condurre eroicamente le ceneri del figlio con sé sul cammino che non è riuscito a terminare, quasi a iniziare. Un signore di sessant'anni che passa dai serafici e artificiali campi da golf dell'America-bene alle privazioni e alle casualità degli 800 km più solcati della storia dell'uomo.

La storia è tutta qua. Quello che avviene nei restanti 100 minuti della pellicola sono nient'altro che un viaggio, un particolare road-movie didascalico che unisce agli strepitosi paesaggi di Pirenei, Navarra, Aragona, Castiglia e Galizia una sceneggiatura tutt'altro che banale, anzi incredibilmente matura, profonda e affascinante. È letteralmente impossibile non rimanere incantati dalla dolente e complessa umanità dello sparuto gruppo di personaggi che interpreta la storia, come, a dir di chi scrive, è impossibile non rimanere stregati dalla magnetica magia del pellegrinaggio. Il film è infatti nato dalla duplice intenzione di raccontare la storia di una paternità e di una redenzione (non solo una, come vedremo) e quella di rendere al cinema l'esperienza di Santiago, al fine anche di promuovere turisticamente questo secolare percorso (il che non appare fuori luogo, essendo note anche le immense difficoltà in cui versa la nazione spagnola, che dal Cammino trae una non piccola fonte di sostentamento economico).

La tragedia greca vietava, per motivi tutt'altro che chiari, alla messa in scena teatrale la rappresentazione della morte. Era considerato un sacrilegio mostrare il suicidio di Aiace, il matricidio di Oreste, o il cannibalismo di Tieste. Si immaginava che questo tipo di scene potessero disturbare il dio dello spirito tragico, ossia Dioniso, cui era dedicato il seggio principale del teatro (ovviamente vuoto). A un dio perennemente giovane e ubriaco e privo di qualsiasi tipo di preoccupazione umana (ma non di sensibilità umana) non doveva capitare di assistere a cose così brutte della vita, del dolore che incarna il senso stesso della letteratura.
Ciò che forse i Greci lasciavano sottointeso è quanto fosse difficile rappresentare la morte in un'opera artistica, in un'opera cinetica quanto quella teatrale. La morte, assenza di vita e sensibilità, assenza di male, assenza di uomo, tappa ultima di un viaggio o di un racconto, poco si confaceva a una narrazione che volesse essere istruttiva e interessante allo stesso tempo, per la collettività, per noi uomini di ogni epoca.
La scommessa (vinta) di Estevez, regista non inesperto (ma forse non eccelso) è stata quella di intrecciare alla vitalità speranzosa, mistica, spirituale, esistenziale, umanitaria del Cammino di Santiago, l'esperienza corrosiva, insensata e tragica della morte. Ha gettato sulla bellezza di un viaggio intriso di religiosità, sacralità e storia umana l'ombra complessa e destabilizzante della morte. Della morte eroica, ma sprecata di un giovane ragazzo pieno di speranze e voglia di conoscenza. E ha fatto il passo fatale aggiungendo un vero e proprio fantasma alla sua narrazione visiva (una cosa che in pochi hanno avuto il coraggio di fare), rischiando tantissimo, ma vincendo tantissimo. Daniel è infatti il quinto, scomodo e silenzioso pellegrino che impariamo a conoscere in questo film, insieme a Yorick dall'Olanda, Deborah dal Canada, Jack dall'Irlanda e ovviamente insieme all'immenso protagonista, Thomas Avery, dall'America.
La scelta delle nazioni non è casuale: la profonda esigenza di realismo che informa questo splendido lavoro ha portato il regista, che ovviamente ha percorso il Cammino, a scegliere località profondamente diverse tra loro, ma accomunate dal parlare perfettamente la stessa lingua (la dimensione insospettabilmente più importante dell'intera esperienza): il Canada, bilingue, è perfetto per rappresentare a livello macroscopico la complessa conflittualità tra Deborah e Thomas, noti i difficili rapporti tra i due immensi paesi americani. L'Olanda, paese di intelligente edonismo, è famoso per la perfetta padronanza dei suoi abitanti della lingua inglese. L'Irlanda, irriverente e chiassosa, ma sfregiata da una storia di prevaricazione e dolore, è l'anello mancante di un quartetto difficile da dimenticare e perfettamente amalgamato: due paesi europei e due paesi americani a confronto, in un percorso che attira a sé persone e dunque storie da ogni angolo del nostro mondo.

Occorre ora precisare che esistono due modi di guardare questo film: quello di chi non ha compiuto il Cammino di Santiago, e quello di chi invece l'ha fatto. Obiettivo di un lavoro critico dovrebbe essere una democratica comprensione di ciò di cui si sta scrivendo, tuttavia questo film e ciò di cui racconta preclude ogni istanza di questo tipo e inevitabilmente parlare delle due cose diventa una necessità, più che una contingenza. Si sconsiglia inoltre di continuare a leggere, qualora non si fosse ancora presa visione del film.

Il rischio di "The Way" è che cada nel sentimentalismo misticheggiante di chi riscontra (e sono tanti) nell'esperienza del Cammino significati trascendenti e sensazionalistici, e in secondo luogo che ricada nel genere della narrativa "geografica", di "viaggio" (ed è significativo che Jack, lo scrittore divorato dal tipico "blocco", sia un rappresentante di questo sottofilone letterario). Non che sia di per sé un male accodarsi a questa linea compositiva, tuttavia ci si sarebbe potuto legittimamente chiedere se ce ne fosse davvero bisogno. Esiste una letteratura divulgativa sterminata sul Cammino, ma ciò che manca (ed è la lacuna che Estevez ha colmato) è una vera storia. "Racconta com'è andata Jack, racconta la verità", dice Thomas a metà film. Esperienze personali su carta non mancavano, se si pensa all'opera prima di Paulo Coelho, ma mancava che fosse l'occhio di una cinepresa a restituire agli spettatori di tutto il mondo ciò che è davvero il Cammino.

E allora ci si può chiedere: è davvero come Estevez lo racconta? È davvero così? È fedele alla verità dei fatti, di quel complesso di relazioni, luoghi, emozioni, inconvenienti che costituiscono l'esperienza condivisa di milioni di persone da secoli e generazioni? Per chi, come chi scrive, ha camminato sulla via per Santiago la risposta è affermativa. Il film è una letterale rivisitazione di ciò che si è vissuto nel mese di durata del pellegrinaggio. Lo scrupolo filologico si nota fin da subito, fin dall'accenno alla mitica prima tappa, quella che va dall'ultima cittadina francese Saint-Jean Pied-de-port alla prima roccaforte spagnola Roncisvalle. Quella da cui parte il Cammino e da cui parte il vero film di Estevez.

La domanda che si sente fare più spesso sul Cammino è: "perché sei qui?". È attorno a questa domanda che ruota la parabola dei quattro protagonisti di questa bella storia. Esaurire con una recensione la gamma di profondi sentimenti che Estevez è riuscito a tratteggiare sarebbe sbagliato. Nel loro inquieto e intimo dolore, è più bello seguire il faticoso emergere di essi durante le tappe del viaggio. In questo sta uno dei pregi maggiori del film: non avere fretta, non mettere troppa carne al fuoco. L'incomunicabilità che dapprima si erge tra i protagonisti sfuma poco a poco, fino a trasformarsi in apertura totale e catartica. L'incomunicabilità, che prima ci disturbava tanto in quanto unica parete artificiale in mezzo alla sterminata e aperta vastità dei paesaggi spagnoli, diventa il motivo per cui arriviamo ad amare questi fragili adulti che sperano nel tanto sospirato miracolo di San Giacomo. "I miracoli scarseggiano di questi tempi, Jack", dice il più lucido, ma anche il più solitario pellegrino del film. Un papà che ha appena perso un figlio.

Thomas emerge grazie all'aiuto di pellegrini come lui. Si detesta e per una strana, ma comune forma di osmosi esistenziale detesta gli altri suoi simili. Ma Thomas sa anche che da soli il Cammino è molto più difficile. E da solo suo figlio è anche morto. Lo vediamo arrancare nel tentativo di salvare lo zaino che stupidamente ha lasciato cadere in un torrente. Lo vediamo dormire all'aperto, lo vediamo camminare a tappe forzate, come se scappasse da qualcosa o avesse fretta di arrivare alla meta. Lo vediamo spargere le ceneri di Daniel lungo il cammino, cercando goffamente di nascondere il suo bellissimo gesto a Yorick e poi agli altri. Ma, a dispetto delle pallide argomentazioni soteriche del gendarme cattolico che informa Thomas della perdita del figlio, quello che ci chiediamo (forse insieme allo stesso Thomas) è: a cosa serve tutta questa mistica gestualità? A chi serve soprattutto. Se a Daniel, che in silenzio segue le orme del padre, con uno sguardo enigmatico, ma sereno, quasi ironico. Se a nessuno. Oppure se solo a Thomas che per un po' o per sempre non ce la fa a tornare al suo golf e alla cura degli occhi della gente. Il mestiere del protagonista ha una discreta rilevanza per i suoi compagni: "Quindi aiuti la gente a vedere meglio il mondo?", gli domanda Deborah. A giudicare dal finale, è la stessa, intera persona a cambiare. Thomas, carismatico e scorbutico leader del gruppo di pellegrini aiuta tutti a "vederci meglio", non più come oftalmologo, ma come uomo in mezzo agli uomini. Il suo è un moralismo umano, sommesso, dolente, che però fa presa sui suoi nuovi figli. "Non è che ora mi diventi uno strizzacervelli?", dice sempre Deborah. L'occasione del Cammino diventa l'occasione per cambiare vita, per cambiare l'occhio con cui si guarda alle cose. All'inizio del film, quando Thomas è uno spavaldo yankee con la battuta pronta, che cerca di farsi piacere la vita che si è "scelto", dice una frase che suona intonata solo alla fine della sua vicenda umana: "L'occhio è l'organo più importante del corpo umano".

Ma è il Cammino a permettere tutto ciò? A far sì che questo bellissimo cambiamento avvenga?

La risposta viene da Jack. L'ultimo e più strano protagonista. Jack, a differenza degli altri, è colui che fin da subito ha ben chiaro il motivo per cui ha intrapreso la difficile strada di San Giacomo. Addirittura, nella sua megalomania, è partito da Parigi aggiungendo più o meno altri 800 km. Deve superare il blocco dello scrittore, deve trovare una storia, esattamente come ha fatto Coelho. Ma è chiassoso, fastidioso e un poco violento. Eppure Jack è il primo a introdurre la spinosissima questione di cosa renda un cammino il Cammino. Di cosa lo renda "spirituale", in sintonia col primitivismo che l'idea comune di un pellegrinaggio presupporrebbe. Ma Jack sbaglia tutto, partendo da un punto di vista culturale (memorabile il suo rifarsi alla prima, medievale guida del perfetto pellegrino), piuttosto che da uno prettamente umano. Non è però ciò che dice Deborah, ancora legata a sentimenti di prevaricazione sul genere maschile (poco dopo colpirà Thomas con un pugno), a centrare esattamente il problema. La risposta a questo difficile quesito non verrà ovviamente data, se non in maniera indiretta. Basterà solo dire che fintantoché i nostri protagonisti spingeranno sul pedale del "ti insegno io com'è che si cammina quaggiù" non approderanno mai alla vera meta del viaggio: capire come essere pellegrini, ovvero uomini, migliori. Perché al di là delle motivazioni che possono indurci a intraprendere questo doloroso percorso, ciò che è realmente importante è la palestra di umana condivisione che si è costretti a fare nel mese che ci separa da Santiago. Fintantoché si rimane chiusi nella spocchia da uomini vissuti, da uomini ancora rinchiusi nei confini geografici del proprio paese, non si sarà mai aperti a quella nazione globale che è il microcosmo del Cammino. Fintantoché ciò sarà, Thomas sarà rinchiuso in galera (indimenticabile lo sguardo di Daniel che scuote la testa, come se fosse diventato lui il padre di suo padre), Yorick continuerà a ingozzarsi di cibo e bevande, Deborah picchierà i suoi amici e Jack sarà invadente e maleducato, col suo libretto degli appunti.

Le cose cambieranno finalmente a Burgos, una delle città maggiori del Cammino. L'episodio di Ismail e del figlio che ruba lo zaino con le ceneri di Daniel servirà ai quattro uomini a capire quanto siano aleatori i confini umani delle nazioni e dei popoli. Saggiamente il regista sceglie il mondo degli zingari, il più detestato dalla gente "civile" per raffigurare la società nomade, multietnica e quantitativamente numerosa ("Una cena con pochi intimi eh?", "Ai nostri matrimoni arriviamo finanche a quattromila invitati") del Cammino. Gli zingari danno ai sofisticatissimi pellegrini della nostra storia ("Ho un cellulare. E ho anche l'Ipod") una lezione di umanità notevole, a partire dalla condivisione gratuita dei beni ("Con quante carte di credito hai pagato questo vino?") fino alla rispettosa venerazione per i morti di una famiglia (a dispetto del comportamento indiscreto e insensibile del gaudente Yorick che, tra uno spinello e l'altro, mette sulla piazza la vicenda di Thomas e di Daniel).

Le cose infine cambieranno del tutto quando i quattro si concederanno una giornata da signori in un hotel a cinque stelle, invece che nel solito ostello dove i letti sono senza cuscini e la doccia è condivisa. E sarà proprio il più chiuso di loro a offrire il soggiorno: Thomas. L'ultimo nodo, quello dello "spirituale", è sciolto. Se si è insieme, se si è amici, se si è pellegrini del viaggio che è la vita, se si sa condividere un liquore antichissimo e due chiacchere sul divano, non importa in che luogo lo si faccia. Non esiste nessuno spirito autentico del Cammino. La paupertas medievale dei flagellanti (non è un caso che Estevez li inserisca), il purismo rigorista degli esaltati è sconfitto dalla grandezza di ciò che questi quattro sconosciuti hanno costruito insieme, in pochissimi giorni. Da questo momento la via per Santiago è in discesa e in men che non si dica Thomas, Yorick, Deborah, Jack e Daniel sono arrivati alla splendida Cattedrale di Compostela. E anche oltre, fino a Finisterrae, passando per il santuario di Muxìa, gli ultimi 100 km prima dell'Oceano Atlantico.

In piedi, davanti ai marosi, ognuno fa i conti con se stesso e arriva a una conclusione che solo l'interiorità può evocare a se stessa. Infatti non sapremo mai davvero cosa ha spinto i pellegrini di questa storia a intraprendere un cammino così assurdo e complesso, dove non sono solo i piedi e il fisico a essere messi in gioco, ma tutta la loro umanità. In omaggio a un antichissima simbologia, che vede la tradizione di bruciare i vestiti che si sono usati durante il viaggio per diventare uomini nuovi, Yorick dirà la frase che ci è sembrata più significativa e autentica, a riassumere il senso del film e di tutta l'esperienza del Cammino:

"Avevo bisogno di un vestito nuovo".

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Recensione a cura di Terry Malloy - aggiornata al 20/07/2012 18.00.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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