Recensione heimat regia di Edgar Reitz Germania 1984
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Recensione heimat (1984)

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locandina del film HEIMAT

Immagine tratta dal film HEIMAT

Immagine tratta dal film HEIMAT

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Immagine tratta dal film HEIMAT

Immagine tratta dal film HEIMAT
 

Potremmo ridurre il significato della parola tedesca" Heimat" in italiano con Patria. In realtà è qualcosa di ben più profondo e significativo di un sentimento patriottico: scava a fondo nelle radici, nel senso di comunità. È il luogo nativo da cui tutti partono e in cui tutti, irrimediabilmente e senza eccezioni, ritornano.

È anche il nome di una delle opere più imponenti di sempre del cinema tedesco, pensata, scritta e diretta da Edgar Reitz. Un film diviso in tredici parti che affronta la storia della Germania dal 1919 al 1982 attraverso la vita di un paesino dell'Hunsruck di nome Schabacch, paese inventato, anche se dalle origini profonde nella biografia di Reitz, che da un posto simile è partito per Monaco ad iniziare la sua carriera di regista.
Certo, strutturare qualcosa di tanto complesso richiede tempo e bravura: ambizioso fino all'inverosimile per quello che vorrebbe rappresentare, il film dura quasi ben 16 ore suddivise in 13 capitoli.
Attenzione però a non confondere lo stile di "Heimat con quello di una qualsiasi serie tv dei giorni nostri, in quanto è cinema allo stato puro che non ha paura di sperimentare: dal bianco e nero che passa al colore, fino alle musiche splendide e sperimentalii di Mamangakis), Reitz riesce a dettagliare gli episodi, rendendoli quasi autoconclusivi, ma, in quanto capitoli di un romanzo più vasto, vanno ovviamente intesi nell'opera d'insieme. E non deve stupire questo riferimento alla letteratura, se lo stesso regista ha affermato più volte di aver preso spunto da essa per concepire questo suo progetto.

Che cos'è difatti "Heimat" se non una sorta di corrispettivo cinematografico de "La Recherce" di Proust? Stessa grandezza intesa in termini di densità in quanto opera non facile, da seguire passo passo con estrema attenzione, che parla del tempo e di sentimenti intimi reali e profondi, che sconvolgono.
Letteratura che torna ancora nelle fondamenta stessa del progetto; bisogna infatti fare un passo indietro e tornare al Reitz depresso dopo il fiasco terribile de "Il Sarto di Ulm", massacrato dalla critica e dal pubblico completamente ignorato. Reitz si ritirò, andando via da Monaco e prendendo la decisione incontrovertibile di non girare più cinema.
Il morale dell'ex regista si abbatte ancora di più, quando vede in tv la miniserie americana "Holocaust", e le reazioni che comporta nel popolo tedesco. A suo dire, infatti, il controverso sceneggiato televisivo sarebbe riuscito a toccare la coscienza collettiva dei tedeschi nella maniera più bassa e commerciale possibile, rendendo il nazismo uno spettacolo per una storia familiare dai buoni sentimenti e trasformando in insignificante la storia tedesca del tempo.
Ritiratosi da un amico a Sylt, il Nostro decise di conoscersi più a fondo andando a scavare nel passato; scrisse allora una sorta di autobiografia che aveva come tema centrale quello dell'andare via dal paese natale. Nello stesso periodo scrisse anche un racconto su uno zio che un giorno sparisce improvvisamente e torna anni dopo da ricco paperone avendo fatto la fortuna in America.

Chi ha visto o vedrà "Heimat" avrà già intuito che il seme del progetto è fertile, e infatti i personaggi principali che compariranno nella sceneggiatura ci sono tutti. Soltanto successivamente Joachim von Mengershausen, già produttore di altri lavori precedenti di Reitz, si interessò al progetto e convinse la televisione a finanziarlo. A questo punto prende direttamente corpo l'opera complessiva, anche se Reitz continua a credere che in realtà questo film non si farà mai.
Restando per un anno nell'Hunsruck, gira allora un piccolo documentario intitolato "Storia dei villaggi dell'Hunsruck", oggi considerato una sorta di prologo alla trilogia.
Mandando al diavolo le direttive della tv, che gli ordina un film di sei ore, Reitz invece ha il proposito di girare le sedici ore che ha pensato sin dall'inizio. Così nasce un film monumentale, realizzato senza alcuna mediazione tra Arte e commerciale ma come un'utopia: Reitz non ha nulla da perdere, la sua non può dichiararsi neanche una scommessa. Sorprendentemente riuscirà a realizzare il suo film come voleva, nonostante i problemi naturali che non possono non venirsi a creare quando lavori a qualcosa tanto a lungo. E ancora più sorprendentemente "Heimat" sarà un successo nazionale prima, internazionale poi,che riuscirà nella folle ambizione di Reitz di unire il popolo tedesco nella coscienza delle proprie radici e della propria cultura storica, una vera e propria reazione di orgoglio all'Holocaust" televisivo che tanto aveva demoralizzato il regista.

Un progetto capace di articolarsi, successivamente, in due seguiti tutt'altro che canonici, che hanno perseguito nuove vie e tematiche, affrontando tantissimi argomenti svariati tra loro, pur continuando fondamentalmente a parlare dello stesso concetto di "Heimat" caro a Reitz.

Nel caso del primo "Heimat" si parla essenzialmente della storia tedesca: cosa non facile da affrontare, in quanto epica di un popolo che ha vissuto sulla propria pelle la vergogna del nazismo e della guerra e che questo peso se lo è trascinato per anni. Attraverso Maria, Paul, Eduard e i personaggi di questa vicenda si parla anche della Storia, quella che molti tedeschi hanno dimenticato o magari hanno voluto dimenticare. L'obiettivo di Reitz è di ricercare una memoria storica collettiva del suo popolo, con il linguaggio universale dell'emozione.

Si può benissimo non essere tedeschi per apprezzare l'opera di Reitz, questo è scontato: ogni cosa rappresentata nel film è insieme individuale e collettiva e il linguaggio dell'emozione ha un valore universale. È la intrahistoria di persone normali e delle loro vite quotidiane, che si vanno a comporre in un quadro ancora più vasto della Storia. Quindi il meccanismo è quello di un epica quotidiana di uomini e donne assolutamente normali, che sono destinati ad essere però cambiati dal corso degli eventi pur prendendovi parte, ad essere amati da noi spettatori per questa loro umanità che spesso li fa sbagliare, li fa diventare opportunisti, a volta ottusi eppure così vivi.

Ed è questa aderenza alla realtà a permeare il linguaggio stesso del film. Il regista affronta tutto con estrema crudezza in termini di eventi, spesso non assistiamo neanche alla morte di personaggi che abbiamo imparato a conoscere: un semplice accenno nel riassunto iniziale o una tomba con un nome bastano a farci capire che il personaggio in questione non lo vedremo più (ma nel finale questa sorta di regola, che abiura i flashback e i momenti mistici si ribalterà).
Il realismo è fondamentale perché: "Ogni volta che nella mia vita di regista mi sono chiesto in cosa consista il principio narrativo, mi è venuto in mente mio nonno. Lui non aveva una teoria per la sua arte di narrare e tuttavia era fermo nei suoi principi: i luoghi dell'azione dovevano essere reali e non potevano essere modificati. Anche i protagonisti dei suoi racconti avanzavano la pretesa di essere vissuti davvero" (Reitz).

Uno dei punti di forza delle 16 ore che lo spettatore impavido va ad affrontare è quella sensazione quasi destabilizzante di essere nell'epoca narrata, grazie ad una certosina aderenza alla realtà, che non si perde in flashback rivelatori o visioni oniriche dei suoi protagonisti (questo almeno fino al già citato finale), di non veder scorrere un semplice racconto passivamente, ma di sentire vicini tutti gli avvenimenti ed i personaggi all'interno di un enorme mosaico vivente: quasi come guardare un piccolo mondo antico da un finestra aperta sul passato, un formicaio umano che sentiamo vicino, grazie ad una lente di ingrandimento che ci fa respirare un microcosmo di passioni inserito in un macrocosmo dove la storia fluisce senza possibilità di fermarsi. Senza per questo perdere la purezza intesa in termini cinematografici, grazie ad uno stile di ampio respiro visivo e di ritmo che sfrutta il tempo a disposizione.

Il tempo è un altro tema chiave del film. Ancora si ritorna a quell'opera di Proust che l'autore di "Heimat cita maggiormente; non a caso Reitz ritiene l'arte cinematografica come lo strumento perfetto per ritrovare il tempo perduto.
Per non parlare poi dei ritratti femminili che ci vengono regalati: la matriarca Maria è la madre per eccellenza già dal nome. Delicata ma indurita negli anni, angelo di un focolare domestico e collante di un'intera famiglia, che non perde i pezzi solo perché da lei tutto quello che parte alla fine ritorna al suo grembo. È lei la Patria dei suoi figli, ancora una volta rimandando al senso di una Patria più grande ancora. Nel primo "Heimat" la donna ha un ruolo essenziale, di madre prima di tutto. Anche altri personaggi femminili rimangono impressi per la loro delicatezza e profondità, per le loro ambizioni interrotte e i desideri realizzati. Ci sarà tempo per discutere delle donne di "Heimat" nel dettaglio all'interno dei singoli episodi.

 Il ritmo è scandito lentamente, ma anche capace di repentini salti in avanti: eppure non c'è bisogno di un riassunto, spesso piccoli accenni o sottili previsioni fanno sì che non si resti mai destabilizzati, né con la sensazione che manchi qualcosa. Stilisticamente i passaggi frequenti dal colore al bianco e nero sono quasi "casuali", non c'è un vero perché: come scritto, Reitz non si abbandona a soluzioni facili come il flashback o il ricordo in senso cinematografico canonico; piuttosto l'atmosfera, data in certi momenti con il colore o con la sua assenza, riesce a rendere ancora più movimentata la visione, notando sfumature che altrimenti non sarebbe possibile vedere o passerebbero in maniera superficiale sotto gli occhi dello spettatore. Anche perché, diciamolo, i romanzi nazionalpopolari hanno il loro fascino.

Oggi, per fare un esempio a noi vicino, potremmo citare uno degli ultimi film italiani che hanno avuto successo nel mondo: "La Meglio Gioventù": un film "piccolo" rispetto ad "Heimat" ma che fondamentalmente segue quasi lo stesso schema di narrare una storia italiana con gli occhi dei suoi personaggi.
Fortunatamente sia per l'uno che per l'altro, sono due progetti che riescono a non abbandonarsi alla retorica fine a sé stessa. Nel caso del progetto di Reitz, il materiale in mano è esplosivo e difficile da controllare: anni e anni di lavoro e costruzione di soggetto, sceneggiatura, scelta dei luoghi, preproduzione, (in tutto si parla di 5 anni), riprese che si protraggono per ben 18 mesi, con del materiale ch dura quasi 16 ore, ma che in realtà è stato girato addirittura dieci volte in più.
 Non ci sono buchi di sceneggiatura, elaborata dettagliatamente e che rende giustizia a tutti i personaggi rappresentati, anche quelli meno importanti. Infine non c'è un vero inizio come non c'è una vera fine all'interno di una vicenda che come tutte le vicende di questo mondo sembra poter continuare all'infinito. È la Vita, d'altronde...

Lo scenario con cui si apre la saga è il ritorno a Schabacch di Paul, dopo la guerra. L'immagine della campagna dell'Hunsruck è in bianco e nero, come gran parte degli episodi ambientati prima della seconda guerra mondiale. Paul che, tornando, non distrugge alcun equilibrio della vita contadina, con i suoi ritmi che nulla può cambiare, nemmeno la guerra; il padre del giovane, il fabbro Mathias, continua a battere il ferro con l'aiuto di suo figlio.
Sono immagini forti e speculari che verranno riprese poi dopo il ritorno a casa di Paul dalla trasferta americana, quando, come in una sorta di passaggio del testimone, lo stesso figlio entrerà nella bottega di suo padre e martellerà il ferro come un richiamo... infatti Paul resta uno di quei personaggi simbolo della saga di Reitz. Un enigma, silenzioso e sempre votato a voler realizzare qualcosa che non sembra esserci. Sposa Maria e ha due figli da lei, per abbandonarla poi successivamente, scappando via all'improvviso.
Paul che scappa via, Paul che diventa lo zio d'America, il ricco paperone americano con le camicie hawaiane e l'accento arrogante che ritorna quando gli americani diventano i liberatori della Germania: al suo ritorno cambierà anche l'attore e Reitz lo differenzia talmente tanto da renderlo quasi un altro personaggio. La sua fuga improvvisa gli farà guadagnare i soldi, ma anche perdere l'affetto della moglie, e il rapporto coi figli non verrà più recuperato se non con Anton, sotto il profilo puramente affaristico.

L'opposto di Paul è suo fratello Eduard: gracilino e bonaccione, le sue aspirazioni sono più terra terra (cercare l'oro nell'Hunsruck, sposarsi con una prostituto e fare carriera nelle gerarchie naziste fin dove gli è permesso). Sarà proprio la moglie di Eduard, Lucie, a mostrare l'arrampicamento sociale di una fetta di società borghese che ha facilitato ancor di più la psicosi collettiva nazista, che sfocerà nel delirio di potere di Hitler.
Reitz però non fa mai dei due personaggi qualcosa di completamente negativo, anzi: li vediamo sotto un aspetto simpatico, a volte perché proviamo pena per i due, specie per Lucie e le sue delusioni nel volere continuare la scalata fino a doversi "fermare" ad essere la moglie di un semplice borgomastro dell'Hunsruck "dove non succede mai nulla".
Lucie, sempre lei, che cambierà faccia e rinnegherà il suo passato arruffianandosi gli americani quando arriverà il loro tempo, rifugiandosi nella preghiera senza mai perdere la risata facile, anche quando rimane solo dopo la morte di Eduard e di suo figlio Horst, esploso su una mina tanti anni prima...

Le donne, si diceva; il loro ruolo nel primo Heimat è fondamentale e Reitz le rende complicate e affascinanti con sfaccettature a tutto tondo. Della matriarca Maria è impossibile non parlare: ennesimo simbolo dell'Heimat specie per i suoi figli, lei è la madre che Hermann abbandona e da cui poi ritornerà richiamato irresistibilmente... Hermann, l'artista, il personaggio più biografico di Reitz che diventerà il protagonista del secondo Heimat. Hermann, il figlio di Otto Wholleben, il vero grande amore di Maria che verrà interrotto in una delle sequenze più toccanti ed indimenticabili della saga (una bomba, l'avvertimento nell'aria che qualcosa sta per accadere e viene ritardato, poi il silenzio e l'enorme esplosione).

Donne che stanno a casa e aspettano, sono le pietre di paragone per mariti e figli: sia Katharina che Paul, Maria che aspetta Anton, Ernst e Otto (i primi due torneranno dalla guerra, il suo compagno no), anche la sorella di Paul, Pauline, innamorata di un orologiaio ebreo che però partirà un bel giorno convinto di tornare a casa presto per poi disperdersi in Russia per sempre. Sono donne che vengono abbandonate e da cui sempre si vuole ritornare, Patria all'interno della Patria...

E se Reitz riesce a non calcare mai la mano, bisogna dire che la liricità diventa cruda spesso e volentieri: negli anni dal 1918 al 1930 non è raro vedere avvisaglie di una Germania frustrata dal trattato di Versailles; il corpo nudo di una donna uccisa chissà perché è l'occasione di accusare un ebreo filofrancese del suo omicidio. L'ebreo che abita sopra il negozio di orologi di Robert e Pauline è l'oggetto di sassaiole da parte di giovani nazisti. Fino a quando Wilfried, fratello di Maria e come suo padre uomo che ha fatto carriera all'interno del partito, non dirà ai suoi compagni del "piano finale" secondo cui gli ebrei andranno su per il camino...
Perché Reitz non può ignorare ovviamente anche la parte oscura della storia della sua nazione, pur facendo ritrovare dignità al vissuto collettivo di uomini che non meritavano di essere dimenticati. La guerra è ovviamente follia, è ritratta con spietatezza tra le macerie di Berlino nel 1944, negli ultimi lampi della guerra più sanguinosa del secolo. Ci sono lampi di vita tra le macerie, come quella della giovane Martina che tenta di far ridere il suo ragazzo morente, ci riesce e poi morirà lei stessa uccisa da un russo, scambiata per qualche soldato. Piccole tragedie che si perdono nel tempo e che Reitz scolpisce nella memoria, poco conta che sia finzione perché è SUCCESSO.

E forse "Heimat" perde un po' di mordente negli anni successivi al dopoguerra. Sia chiaro che l'episodio del Giovane Hermann è una perla all'interno di un progetto ancora più vasto, tanto fondamentale da essere stato poi il punto di partenza di Heimat 2: l'amore del ragazzo che tanto assomiglia al patrigno Paul (senza averlo mai conosciuto) nella voglia d'altro, di cambiare, di essere un'artista. Il suo svezzamento amoroso e di maturità che si compie nel dolore del distacco dall'amata Klarchen, l'amore proibito perché più grande di lui di 11 anni, riescono a colpire per la purezza dei sentimenti mostratici e l'ecletticità di Reitz nel citare Goethe e l'anima più romantica della sua terra.

Molti hanno criticato il pezzo successivo al dopoguerra. C'è da dire che Reitz aveva l'idea di fare un ulteriore episodio ma la morte dell'attore che interpreta Mathias glielo ha impedito, rendendo il divario e la quasi "fretta" degli avvenimenti successivi al boom economico forse troppo frammentari, ma non per questo meno belli.

Nell'ultima parte Edgar Reitz narra anche dell'oltretomba: solo con la morte il regista attua un distacco dal realistico che fino ad ora (esclusi brevi sprazzi onirici) aveva contraddistinto il suo lavoro. Essendo quello che c'è dopo inenarrabile, Reitz si adatta a rendere vera la visione di un Glasisch morente (il personaggio che apre ogni episodio, lo scemotto del villaggio): i morti che si ritrovano felici e si mescolano alla festa paesana dei vivi.
I racconti contadini sono ancora una volta alla base di questa scelta che non stona con l'omogeneità realistica di tutto il resto dell'opera.

Un "Heimat" che si avvia al tassello finale con gli eredi della famiglia Simon con un ruolo ben definito: Anton apre una fabbrica che prospera nel boom economico ma che poi, quando arriveranno gli speculatori, si rifiuterà di chiudere portandogli solo problemi; il suo opposto è guardacaso il fratello Ernst, sempre con la testa tra le nuvole e con la voglia di non scendere da lassù: ancora una volta un personaggio maschile che cerca "qualcos'altro", ma questo altro non si identifica perché probabilmente non esiste. Non a caso si vedrà poi in "Heimat 3" come andrà a finire per Ernst, che conclude la sua storia nel primo "Heimat" facendo una proposta di matrimonio impulsiva ed inaspettata, per uno che è sempre stato libero da tutto, figurarsi dai legami. Hermann è l'artista, e come tale a lui spetta la chiusura (momentanea) del monumentale progetto di Reitz: per il regista infatti l'unico modo di comprendere l'Heimat e di richiamarla alla memoria senza renderla mero feticcio, è la trasfigurazione artistica. Diventato un famoso compositore di musica moderna, con l'aiuto di Paul (che si identifica in lui, che non è neanche suo figlio) organizza poi un concerto all'interno del cuore stesso di Schabacch, in una cava. La musica esce fuori diffondendosi tutto intorno, inarrestabile. È il commiato perfetto, il senso ultimo di cosa sia l'Heimat. Perché è vero, è stato detto che significa Patria ma ridurlo così è troppo semplicistico: è un legame viscerale, una terra che va bene solo nell'infanzia e da cui è inevitabile tanto allontanarsi quanto tornare. Chi vedrà l'opera di Reitz, se non capisce queste parole, senza dubbio capirà.

"Heimat" è come le fotografie mostrateci ad inizio episodio, in quei riassunti di grande semplicità: lampi che restituiscono attimi di vite tutte umane, fatte di legami familiari, sentimenti, morte e vita; ma ogni foto restituisce anche la complessità di tutto questo, rendendo gli uomini e le loro vite, ivi rappresentate, ancora più insondabili eppure tremendamente affascinanti. Capire l'Heimat o tentare di farlo è inutile: sentirla, quello è un sentimento che tutti abbiamo. Il vero problema è che per sopperire alla sua mancanza specie quando si è giovani abbiamo bisogno di trovarne una seconda, di patria. Un Heimat 2...

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Recensione a cura di elio91 - aggiornata al 23/11/2011 15.03.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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